Una selezione di testi critici e articoli su Corrado Cagli
(D. Sabatello, in “Il Tevere”, Roma, 8 marzo 1933)
(L. De Libero, in “un’esposizione di Corrado Cagli”, cat. mostra, Galleria della Cometa, Roma, 30 gennaio – 15 febbraio 1936)
(in “Beaux-arts”, n. 310, Parigi, 9 dicembre 1938, p. 2)
(A. Chiesa, in “Paese Sera”, Roma,, 15-16 dicembre 1958, p. 7)
(M. Innocenti, in “Rotosei”, anno V, n. 4, 25 gennaio 1961, pp. 57-59)
(A. Trombadori, in “Notiziario de’ La Nuova Pesa”, n. 4, Roma, 3 marzo 1962)
(G. Marchiori, in “Civiltà delle Macchine”, Venezia, 1963)
(R. Carrieri, in “Mostra antologica di Cagli”, cat. mostra, Civico Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 29 novembre 1965 – 8 gennaio 1966)
(A. Bovi, in “La Fiera Letteraria”, anno XL, n. 48, 12 dicembre 1965, p.12)
(C. L. Ragghianti, in “Cagli”, cat. mostra, Galleria Don Chisciotte, Roma, 9-23 maggio 1966)
(L. Bigiaretti, in “Successo”, anno VIII, n. 9, Milano, settembre 1966)
(G. Ungaretti, in “Cagli”, cat. mostra, Civica Galleria d’Arte Moderna E. Restivo, Palermo, 25 marzo – 25 aprile 1967)
(in “Il Fiorino”, anno I, n. 51, Firenze, 3 maggio, 1969, p. 10)
(in “Il Fiorino”, anno I, n. 85, Firenze, 15 giugno 1969, p. 10)
(E. Crispolti, in “Due asterischi per Cagli”, cat. mostra, Galleria 818, Pescara, settembre 1970)
(Berenice, in “Paese Sera”, Roma, 7 dicembre 1975)
C’é nella pittura italiana come stato d’animo diffuso un desiderio di temi grandi e di soggetti nuovi, un’aspirazione alla parete o al gruppo di pareti direi quasi una nostaIgia dell’affresco.
Desiderii, aspirazioni e nostalgie rimangano però, nella maggior parte del casi, allo stato di nebulosa e sono ben pochi gli artisti che portano la reazione contro la natura morta ed il quadro formato cartolina fuori delle sale affumicate dei caffè letterati. All’avanguardia di quel manipolo d’audaci — ma che importa il numero? in tutte le manifestazioni dell’arte (e questo è un discorso che potrebbe calzare a perfezione anche a proposito di sindacati artisti e di questioni sindacali) quello che conta è solo ed esclusivamente la qualità — possiamo senza tremare di parer azzardati piazzare un giovanissimo: Corrado Cagli.
All’inizio della carriera artistica di Cagli, stanno teorie di pupazzi schizzati ai margini di quaderni e di libri, strane maschere in mollica di pane ed una volta decorata con dei putti ridenti; ma su queste cose come pure sopra un terribile bambino, sentenzioso, pettegolo e vecchissimo ho promesso di essere più muto di un pesce malgrado tutto voglio mantenere la promessa. Il primo episodio di una certa importanza è la decorazione di un grande salone per il gruppo Rionale Campo Marzio-Trevi-Colonna. 70 metri di perimetro murale, 15 scomparti da riempire con composizioni più grandi del vero. Molti artisti con una ben altra esperienza si sarebbero spaventati. Cagli aveva allora 18 anni. Accettò con entusiasmo, e dopo qualche mese di accanito lavoro dipingendo a tempera sul muro, tutto era finito. Sono scene di vita nei campi, nelle officine. nelle palestre; plastiche sincere e sentite. Difetti ce ne che coincidenza pure — Oppo, Egger che coincidenza pure — Oppi, Egger, Lanz, Stuck — ma se le pitture non stessero lì a testimoniare, si stenterebbe a credere che tanta maestria di disegno ed una fantasia così sapientemente applicata siano opere di un diciottenne.
Finita questa decorazione, Cagli ha un’interessante periodo d’artigianato. Una fabbrichetta umbra di ceramiche — dove si cuocevano delle cose spaventose in stile antico — lo chiama come direttore artistico. C’era tutto da creare di sana pianta: lo stile, i tipi, le maestranze.
Anche questa volta era un lavoro straordinariamente emozionante, ma tutt’altro che facile. Infine prova e riprova, le fornaci cominciarono a dare i primi vasi originali, modelli, decorati a scene della, vita fascista, e delle statuine eccezionalmente pure. Contemporaneamente Cagli, per conto di un privato, celebrava ad Umbertide la Battaglia deI Grano in 40 metri di parete affrescata.
La fabbricazione delle ceramiche fu interrotta bruscamente causa un avvelenamento ed un susseguente esaurimento nervoso, causato dal piombo che entrava come ingrediente nella colorazione dei fondi, e Cagli allora fece anche dei quadri a cavalletto.
Soggetto sportivo: calciatori, boxeurs ecc. Li espose alla Galleria di Roma insieme alle opere della Pincherle e fu un successone di pubblico, critica e vendite. Segue un anno pieno di avvenimenti memorabili: la costituzione del Gruppo dei Nuovi Pittori Romani, la sfida con i giovani pittori milanesi, la conoscenza e l’iniziazione di Sclavi e di Romeo, un diabolico boy della Lazio che ha 16 anni, il più bel ciuffo di capelli che sia dato trovare sulla piazza di Roma e un talento spaccato per le critiche d’arte ed infine il primo pensionato.
La storia di questa infelicissima gara è già nota; malgrado l’ingiustizia palese, Cagli non se la prende e continua a lavorare di gran Iena. Fa di nuovo un’esposizione a Roma, decora una stanza alla mostra dell’Edilizia, va a Pesto a dipingere ed è invitato da Martini a esporre con lui a Milano. La cosa non può aver seguito per ragioni commerciali, ma un’esposizione a Milano, Cagli l’ha fatta Io stesso, proprio in questi giorni, alla Galleria del Milione.
E’ tornato da Milano proprio perchè s’è iniziata la seconda gara del pensionato che non dovrebbe, questa volta, per nessun pretesto, non essere assegnato definitivamente a lui. Ne riparleremo, del resto, tra breve.
Ora, per concludere questa cronachetta, mi sembra giusto far rilevare come, pur senza giudizi e analisi critiche sull’essenza della sua pittura, sul suo mondo e sulle sue idee in arte, il· semplice e nudo elenco di ciò che ha fatto Cagli a 24 anni dica chiaramente che non sono molti gli artisti in Italia, anche più anziani di lui, a poter vantare una tale attività di servizio.
Finalmente l’arte si distinse da se stessa e trovò i lumi
e le ombre per la differenza dei colori, i quali si
risvegliano l’un l’altro. Vi si aggiunse poi lo splendore il
quale è altra cosa che il lume e fu chiamato tono perché
è fra questo e l’ombra, e la commisura e il transito dei colori.
PLINIO IL GIOVANE
Buona parte della pittura contemporanea è finita nelle biblioteche più che nelle gallerie; nata dalle parole, spiegata a parole, è rimasta parola nella carta stampata delle riviste e dei libri, torna a parole nel ricordo. Pittura scritta, non dipinta, ebbe una dottrina in sul nascere, una storia rapida e conclusiva; e l’arte, com’è delle cose naturali, non conclude, sibbene ricomincia dai semi più remoti, quando tutte le apparenze ne dicono la morte. Per una intesa collettiva si disse pittura, e non era che un simulacro policromo; distratto dal più umano sentire e patire si aboliva nell’anonimato della cronaca, non certo del proverbio che rappresenta sempre una regione, una razza, una civiltà; e per non esser nata da un dialetto, questa pittura non ebbe un linguaggio, e creò solo un neologismo grossolano nonostante il gusto e la delicatezza del1′ impiego. (Non curo i bilanci stranieri e le sue eccezioni, e tuttavia per noi indico i due estremi, a parer mio esemplari, De Chirico e Morandi che, l’uno per il rigore pittorico e l’altro per l’invenzione poetica, salvano onore e rispetto).
Ma oggi, decadute le formule e sedati gli scismi, né più bastando gli effimeri incantamenti del senso, c’è chi raccorda i fili con una tradizione spirituale, con una civiltà remota; rinasce il soggetto, torna l’uomo con le sue passioni e i suoi oggetti familiari, le ambizioni e le imprese interiori, rinasce la pittura che dalle origini fu sacra e misteriosa rappresentazione. Per tali fatti non conosco pittore più felice di Cagli che può chiamarsi pittore senza verbali d’origine e con un’origine più propria che è quella della pittura, antica quanto la terra e come la terra rinnovante la sua erba a stagione propizia.
Nulla nasce dal nulla e Cagli nasce dalla pittura, sebbene nel ciclo da lui compiuto (che va dall’affresco nella seconda Triennale di Milano ai grandi pannelli della Quadriennale) molti abbiano voluto estrarre i più disparati certificati di nascita. Ogni artista si sceglie il padre che gli conviene, e tanto meglio se il putativo fu di grossa schiatta; ogni artista si fa una propria intima tradizione, e tanto meglio se con la ragione e l’amore; e non è difesa la mia, i quadri di questa mostra offendono bene chi non sa guardare.
Dalla concreta esperienza e realtà del!’ affresco che gli spetta di aver rimesso in questione quando i cavalletti altrui trottavano per le campagne e gli studi, da una realizzazione ampia di pittura murale, ove l’impegno di svolgere figurazioni in una composita armonia di piani e di toni che esigono una partitura stretta di accordi e di risonanze, viene a Cagli quella facoltà di scegliere un accento totale, quel purificare rapido la materia, quel modulare libero e pieno il colore che si concede in tutta pittura, in uno slancio concorde e durevole. Alludo alla “Corsa dei barberi” affrescata a Castel dei Cesari: una sequenza drammatica di uomini e di cavalli che si avvallano nella felice unità dei neri, dei bianchi, dei bruni, dei fulvi, dei rosa dentro una valutazione spaziale esatta dal numero, dal ricorrere che fanno i contrappunti delle coccarde indaco sopra i neri e i bianchi dei cavalli allarmati. Senza concessioni decorative, quell’affresco svelava una plastica costruzione dal profondo, un alto equilibrio dell’umana ragione in seno alla pittura, ai grandi gesti della pittura. Chi ricorda la “Corsa dei barberi”?
Perciò il suo dipingere non si restringe mai né si disperde né si mortifica allorché passa sulla breve superficie del quadro, ma diviene intenso e corposo, costruisce un proprio spazio e misura un suo tempo, assumendosi di per sé a visione; e in tale equilibrio e per esso si fa elementare come il nascere delle cose nell’Universo. E’ proprio la sua pittura che accende la forma di quell’oggetto, di quella figura, di quello spazio, di quell’accento e ne fa l’allegoria in un linguaggio mirabile, non perituro.
Se tale non fosse il potere che Cagli ha di accentrare nella pittura ogni sua invenzione, si guarderebbe alla “Caccia” come a un capriccio decorativo; ma il decorativo esclude ogni visione, s’affida alla più clamorosa mistificazione dei sensi, aggiudicandosi il colore per un proposito effimero, convenzionale. Una visione si esprime coi soli mezzi della pittura, e nella pittura trova la sua ordinale costruzione; non v’ha pittura senza visione.
Dalla “Caccia” si scioglie un canto lungo e profondo che si concerta nelle figure saettanti, nello scalpitio del cavallo estroso allo scoccare dell’arco che fa il suo cavaliere (caccia in onore del!’ eroe), nell’ idillio delle siepi e del sole assente ma presente, dei levrieri furenti, tutta la valle risuona dei mutevoli verdi, azzurri, viola, bianchi, che favoleggiano di eroica gentilezza. La composizione svolge le sue fila dalla coppia centrale inscrivendosi in misura perfetta dentro la profondità del paesaggio, ovunque stabilendo un rapporto di grigi attinti dai verdi.
Così nel “Ragazzo con l’oca” ove la luna s’è mutata in oca per essere rapita dal ragazzo cattivo: il bianco dell’oca fa tutto lunare, inumidisce sé stesso, le carni del ragazzo, le strisce rosse e verdi della maglietta; fa una ruvida ombra sul volto: il mito diviene malizioso, screanzato, col favore della pittura che spiega i suoi meriti traverso un ondulare carnale trascendendo nel sogno. E ancora gli strumenti di Cagli sono gli strumenti della pittura per cui egli crea un fascino, un richiamo, un avvertimento; e non importa qual sia la visione, quando una forma terrena prende sostanza e verità con la forza della pittura.
Di questa forza, non mai cauta né sciupata, tutta chiusa in un equilibrio di ragione e di sensi, fanno ancora testimonianza “le nature morte” cui l’occhio rivolge i suoi più diretti colloqui.
La “natura morta del flauto” denuncia il suo ordine sacro nello scioglimento delle forme in emblemi sopra un fausto motivo ricorrente di gialli e di rosa che indorano l’aria; per toni bassi si affiocano in grigio sino alla pausa nera del flauto. Il pezzo di pittura, come si dice.
La “natura morta rossa” è una variazione solenne su nove temi di rosso che si accertano, l’un l’altro, per un modo denso della materia che riporta in luce la sua fibra più segreta vibrando da una grande passione, odio e amore; decanta l’ambiente ove divenne; in una eguaglianza ossessiva quasi che i rossi esigessero la propria presenza per un documento minuzioso di toni e di volumi, per divenire araldica intera.
Nella “natura morta delle mele” con un fasto novello dei rossi e l’acconciatura cerulea v’è un cerimoniale tra le frutta, il guanto, il corno, e la stoffa e i piani che essi creano per un sortilegio della mela tagliata che dona intorno una luce di convito notturno, estremo eden.
Bisognerebbe non tralasciare questa pittura che non descrive mai, e ripassare quanto si è detto e di più, mantenere l’interesse sulle altre nature morte, sulle altre figure, sui paesaggi, sul “ritratto d’uomo” che occupa un posto singolare in questa pubblica rassegna ; compilare il sillabario dei colori che Cagli inventa ricreandoli volta per volta ; comporre un indice meticoloso dei fili che fanno questo suo tessuto pittorico splendido raro e nuovo insieme, per il quale egli estrae l’essenza delle cose quasi il fiato di esse per infonderlo alle sue creazioni. Contentiamoci di guardare, allora: e prepariamoci a un discorso più lungo.
Il mondo spirituale di Cagli è quello della sua pittura ove si riconoscono segni autentici e manifestazioni di future gestazioni; il suo è un perfetto amore, la sua una religione perpetua. Restano sulla punta della penna gli straordinari disegni, il mosaico da lui ideato per la fontana monumentale di Terni.
Intanto ho parlato della pittura di Cagli, o meglio della pittura.
Grandeur et misère du peintre romain Corrado Cagli. En 1933, les jeunes élites fascistes appartenant à l’entourage du Duce, fondaient la revue d’art: Quadrante. Bardi en assumait la rédaction en chef avec Bontempelli. Cornelio di Marzio, qui dirigeait la Bibliographie Fasciste, en était, avec M. Monotti, le futur secrétaire général de la revue Vittoria, l’éminence noire ou grise. Cette époque lointaine, les « manières rudes » dont parlait M. Hitler dans son charmant discours de Nuremberg, étaient encore de mise en Italie. M. Mussolini se montrait fréquemment en public, circulait sans escorte et recevait les écrivains français. Les intellectuels qui formaient son brain’s trust s’habillaient comme des membres de la Tchéka. Ils portaient des barbes… de trois jours et des vestons de cuir. Le peintre Corado Cagli était considéré par le petit milieu de chefs de file qui prenait ses ordres au Palais de Venise comme un futur David. Cet adolescent, qui venait d’accomplir son service militaire, et qui subissait (si étrange que cela puisse paraître) l’influence d’André Masson, était littéralement surchargé de commandes. Tandis que la revue Quadrante commentait ses travaux et voyait en lui le porte-parole d’un art à la fois romain et révolutionnare, il peignait une large fresque à l’Exposition Triennale de Milan. La comtesse Pecci Blunt, qui était alors persona grata (elle ne l’est plus du tout) l’accueillait dans son Palais Romain, centre de la vie artistique et mondaine de l’Italie fasciste d’avant l’Axe, et mettait à sa disposition la Galerie « La Comète », qu’elle dirigeait et qu’elle subventionnait. Cagli était le chef de cette Scuola Romaine qu’on opposait a l’Ecole de Paris, et dont faisaient partie un certain nombre de peinfres que feu le Comte Sarmiento présenta à Paris, à la Galerie Bonjean, sous les auspices de M. de Jouvenel.
La Princesse Bassiano-Caëtani montait en épingle l’oeuvre de Corrado Cagli dans le trop éphémère foyer des Amis de l’Art Contemporain, avenue Georges V. Le temps passait. Mais le renom du peintre ne faisait que croître. En 1937, les Amis Français de l’Italie constataient, avec stupéfaction et avec ravissement, que les peintures de Cagli couvraient tous les murs du rez-de-chaussée du Pavillon de M. Piacentini (pavillon italien). L’artiste y retraçait les phases successives de l’histoire italienne, depuis le siècle d’Auguste jusqu’à Mussolini. Cagli avait évolué. Il avait acquis le sentiment de la grandeur et de la tradition. Son style était un compromis entre Chirico et Andrea Mantegna. Ses peintures murales exécutées sur les rives de la Seine ont marqué l’apogée de sa gloire.
Nous avons retrouvé Corrado Cagli quelques mois plus tard, exilé à Paris. Il était pratiquement mis au ban de la vie artistique du nouvel Empire Mussolinien. Il n’avait plus le droit d’exposer. Son frère, officier de la Marine royale, était rayé des cadres. Quelle était la cause de cette disgrâce? Le Gouvernement venait de s’apercevoir que le futur David était un descendant du roi Salomon.
Una delle esposizioni più discusse e fortunate – Gli entusiasmi di Squarzina, di Elsa Morante e Eugene Berman – Un acuto e affettuoso giudizio di Omiccioli – ll diparere di Gino Marotta e di Maria Fabbri
E’ raro, nel mondo dell’arte italiana, che una mostra di pittura desti interesse e scalpore come quella recente • di Corrado Cagli, alla Galleria di via Capo le case, n. 4, « Il Segno ». Non capita spesso di trovare, per una mostra di pittura, tanta adesione nei vari settori della cultura, in tutti gli àmbiti della vita. Bisognava vedere quel che era di gente !a raffinata galleria d’arte una decina di giorni or sono la sera dell’inaugurazione. Dalla, Morante a Squarzina, da Attardi a Vigorelli, da Schneider a Linuccia Saba, da Margherita Caetani a Strawinsky, dalla De Stefani a Carlo Levi, alla Astaldi, a Moravia, a Omiccioli, a Perilli, possiamo dire che tutta indistintamente la « haute » della cultura italiana s’era dato convegno per quella « vernice » e tutti discutevano animatamente e – sia pure con cautela furtiva – toccavano con mano , questi quadri che sembrano « spiegazzati », ma sono invece sapientemente dipinti.
« Cagli è sempre Cagli » c’è capitato quella sera di sentir dire da un noto personaggio italiano. E’ proprio vero: dai lontanii tempi della scuola tonale (di cui Cagli fu fondatore con Capogrossi e Cavalli), alle ricerche di quarta dimensione del dopoguerra, fino alle opere recenti, questo maestro della pittura ha sempre tenuto vivo il clima della arte, particolarmente in Italia e, negli Stati Uniti.
« Esistono nature d’artista che nella società loro contemporanea – ha scritto di lui Palma Bucarelli, sovraintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna -, oltre alla funzione di artisti in quanto tale, hanno la proprietà di agire come stimolanti, di eccitare certe forze latenti, indicando nuove possibilità e modi e, insieme, di apparire come catalizzatori dei fermenti del tempo. Temperamenti essenzialmente cerebrali, dal loro ingegno fervido rampollano continuamente idee che, germogliano e dànno frutti anche lontani, incoraggiano gli incerti, rafforzano convinzioni… A questo tipo di artista appartiene, per esempio,
un Picasso; in Italia, tipico è il caso di Corrado. Cagli. Dico in Italia non per porre limitazioni ( chè del resto la arte va assumendo sempre più carattere internazionale) ma perchè Cagli mi sembra ingegno essenzialmente italiano ».
Ecco poi qualche parere sull’ultimo Cagli di alcune personalità che abbiamo avuto modo di incontrare alla Galleria « Il Segno ».
Il noto regista e autore drammatico Luigi Squarzina, per primo ci ha detto: « Queste nuovissime e sorprendenti ” visioni ” di Cagli ci dicono che anche la pittura entra nell’età della scienza: in questa età, che continuamente rimpasta e ripresenta ai nostri occhi l’universo segnandone il volto con le ascisse e le ordinate di una geometria non-euclidea, a infinite dimensioni. Ma al tempo stesso – e questa mi pare la ragione della grande forza emotiva di questa pittura – abbiamo sempre a che fare, con la materia elementare inconoscibile della Genesi, nel cui grembo come in un magma roccioso lottano per trovare forma le figure ansiose della vita, cristallizzate o incandescenti. Si tratta, sotto l’apparenza del virtuosismo o del « marouflage », di una tra le pitture più « filosofiche » che si sono tentate dopo Kandinskj. Almeno, questo è il mio parere. Sono pieno di ammirazione davanti a questa arte intelligente ma non intellettualistica, profonda ma non nebulosa, rigorosa ma piena di calore nascosto ».
Anche Giovanni Omiccioli, la cui pittura è tanto diversa da quella di Cagli, ci ha dichiarato: « Ritengo Cagli non soltanto un pittore ma un artista che oltre ad avere il dono della fantasia e dell’immaginazione è secondo me – un compositore musicale, tanto che l’ultima mostra mi ha dato la sensazione di una sinfonia in cui, fin dalle prime battute del primo violino, si arriva all’ultimo tempo, dove la completa armonia strumentale ci lascia incantati e sospesi fino alla conclusione. C’è un quadro nella sua mostra – intitolato Genesi – il quale mi ha dato subito l’impressione di una foglia autunnale caduta su di un selciato coperto di neve. Questa sensazione è stata per me immediata, ho visto la realtà ».
L’illustre pittore Eugene Berman. capostipite della scuola neo-romantica, famoso scenografo teatrale, ha detto: « Conosco Cagli da più di venti anni; al di fuori dell’amicizia che ci lega da vecchia data lo ammiro molto come artista. Trovo che la sua ultima mostra è la più bella e interessante di tutte quelle che ha fatto fino ad oggi. Ciò che più mi piace in lui è vederlo continuamente alla ricerca di elementi nuovi, di direzioni nuove, umane, stimolanti. Normalmente ho più spirito critico per gli amici che per i pittori che non conosco: nel caso di questa mostra di Cagli però, debbo dire che non ho da fare alcuna riserva, se non di scelta. Nel suo studio ho visto qualche quadro che amavo forse più di quelli esposti ».
Abbiamo anche voluto sentire il parere di un pittore giovane che ci sembra informato a principi stilistici e poetici diversi da quelli di Cagli.
« Questa mostra di Corrado Cagli – ci ha detto Gino Marotta – m’interessa in modo particolare perchè sembra colmare la distanza stilistica, morale e culturale che si è determinata tra i pittori giovani e quelli della precedente generazione. La introduzione di una coscienza analitica nell’adoperare lo spazio in funzione di tempo, nell’evocare simbologie ed epoche diverse in uno stesso spazio, lo scandaglio dei moti inconsci dello spirito umano, l’impiego di elementi semplici o talvolta complessi, il riscatto di materie umili, nella pittura moderna fanno di Cagli un artista di determinante importanza per le problematiche che animano la pittura giovane ».
La scrittrice Elsa Morante che da anni segue l’opera di Cagli con particolare interesse: « Fra tutte le mostre di Cagli che ho visitato finora – diceva – questa mi sembra, forse, la più bella. Cagli è di quei poeti per cui l’arte è un mezzo di sconfinata esplorazione; e possiede tutti i doni necessari per questa meravigliosa ricerca. Stavolta, egli sembra avere scoperto un nuovo regno della natura, una materia di qualità rara e sconosciuta, che, pure, di volta in volta, sulle diverse tele, ci fa partecipi di una propria segreta parentela coi diversi elementi terrestri. Qui è minerale, ha i risalti delle pietre dure, o addirittura ripete i risultati della magia, quando il metallo, attraverso la serie dei colori, passa dal nero all’oro. Qui ha la scabrosità calda e drammatica di una scorza vegetale, altrove è trasparente, cangiante come l’aria. E spesso, poi, dentro la sua sostanza, come le venature sibilline delle foglie, porta scritte delle storie, delle figure o delle profezie.
« In ogni quadro, si ritrova simile qualità di elemento unico, reale e naturale (e in tal senso, questa pittura mi sembra la meno astratta che esista); e ad ogni quadro, risponde l’emozione naturale, inesprimibile della vita e della poesia.
« Se io fossi una ricca signora, vorrei adornare il mio palazzo di queste tele, e credo che non mi stancherei mai di interrogarle ».
« E’ straordinario scoprire, a poco a poco, nei quadri di Cagli – ci ha detto la nota attrice di teatro Maria Fabbri – la ricchezza del mondo evocato, l’intelligenza, e anche e forse sopratutto, una toccante carità. Non so spiegare perchè. Lo sento, senza darmene una ragione precisa. Forse nella scelta della materia fondamentale, ia più umile e povera, quella che ciascuno ha ogni giorno fra le mani, e nelle pieghe naturali, in ogni sgualcitura, dove si appoggia la luce, diventa suono, metallo, aria, mare e finalmente storia umana… Sono uscita dalla mostra con un’impressione che non dimenticherò facilmente ».
Quando ho cercato di ottenere da Cagli delle risposte che portassero un po’ di luce su quelli che a me e a gran parte del pubblico possono apparire concetti complicati e astrusi, come l’impiego dell’iperspazio in pittura e quanto riguarda le « enne dimensioni », non ho ottenuto se non questo risultato: che molto più che le questioni teoriche a Cagli interessava quel giorno il dialogo diretto che si stabiliva tra la pittura e la gente.
Quando la lucidità di una visione intellettuale si combina con la fantasia, anch’essa forma del sentimento, e collima con l’irrazionale, dominio, oltre confine, della mente, si ha una realtà poetica, dinamica e in divenire; una realtà che si traduce, per espressioni, in forme d’arte: le quali possono avere le manifestazioni più diverse, ma pure sempre aderenti ad una verità sostanziale che si rifrange, intatta nelle molteplici apparizioni. Questo è il caso del genio.
Per esempio, nel nostro tempo una personalità che incarna questa essenza dell’artista è Picasso; e le sue variate esperienze, assurde e contraddittorie all’apparenza, sono invece un escursus conseguente e rigoroso del suo demone speculativo che ha la più esatta fisionomia nella passione della ricerca come creazione.
Creazione di una realtà nuova perché proiettata nel futuro, tangibile perché destinata ad incarnarsi nel tempo che verrà, poetica per la drammaticità delle lotte e delle avversità che deve superare per attuarsi; di una realtà, infine, d’arte che conosce la terribile necessità dell’incarnazione di un’idea nei termini stretti del relativo. Poiché ogni forma di arte è espressione di religiosità nel senso più alto, di una completezza totale che non ammette deficienze di sorta.
L’artista d’oggi, consumato il termine di paragone dell’uomo verso il suo mondo terrestre, e essendosi aperto all’uomo un orizzonte tanto più vasto e di pretta natura spirituale, l’artista, dicevamo, come cantore poetico della natura, non ha più necessità di essere; e solo in casi in cui si sintetizzi l’incanto del mondo con il richiamo del mondo dello spirito, si ha l’artista naturalista, rappresentatore dell’ambiente che lo circonda. È questo il caso di Utrillo: cui faceva schermo e difesa una fede incrollabile che rasentava l’assurdo per chi non era dotato di occhi adatti a vedere al di là delle apparenze.
Utrillo non aveva bisogno, per esprimersi nella sua potenza poetica, di abiure e abbandoni; la sua pittura procedeva lineare secondo l’ispirazione di fronte al soggetto, la quale, essendo grande, quando lo era, creava il capolavoro. E Utrillo era pittore classico. Ma per quella plurisecolare lotta che ha animato il mondo delle arti fin dai tempi di Omero, di cui i greci definirono i termini con le espressioni: apollineo e dionisiaco, accanto a un classico nasce un romantico. E Picasso è romantico, cioè suscitato dal senso, in verso orizzontale, del dionisiaco: perché deve ritrovare la sua stabile verità in un susseguirsi di successive verità particolari, ognuna delle quali è un punto avanzato sull’altra, ma, forse, non superiore; poiché unico è il termine di ultima soluzione, nel quale le precedenti forme contraddittorie trovano la spiegazione.
Sono momenti transitori, emotivi, provvisori, che indicano il segno sicuro di un’unica linea conseguente.
Questo lungo cappello, mi si passi il termine giornalistico, a questo breve articolo, che parla più per le riproduzioni che per il testo, lo abbiamo ritenuto necessario prima di fare il nome di Corrado Cagli. Cui, appunto, da più parti viene rimproverata una versatilità come incostanza, una inventiva come trovata, una ricerca come arbitrio, infine, una libertà spirituale come spregiudicatezza.
Nel nostro tempo l’opera di Cagli va intesa come quella di un artista che ha potuto, per la profonda interpretazione del momento e per la conoscenza delle sue cause scientifiche e morali, suscitare una quantità di fermenti che rispondono a ragioni dell’arte del suo tempo, vissuto e anticipato; e che ha voluto, nel verso verticale, assolvere la funzione di indagine picassiana.
I fermenti nell’arte moderna sono numerosissimi, ma nelle mani dei mediocri diventano motivi di mutamenti e trovate. Cagli, invece, ha saputo convogliarli ad una unica espressione poetica che si ritrova in tutte le sue « maniere », come manifestazioni di una continuità reale e creativa del suo essere artista. Le immagini dell’arcaico, del meraviglioso, del mitologico, del terrificante, nella sua opera sono attimi del tempo nostro, che richiama in causa, proprio perché tempo di crisi, i momenti del passato storico e poetico, e le supposizioni dell’intelletto riguardo al futuro, il quale non è scisso dalla esperienza trascorsa. Quindi non incostanza, non trovate, non arbitrio, nell’arte di Corrado Cagli, ma momenti di pittura rivelatrice di attimi conseguenti in una prospettiva futura.
L’ ardore della ricerca in lui è contenuto dalla rigorosa volontà della ricerca medesima; la sua energia attiva plasma il gusto del suo tempo e ne indica la strada, per lui naturale, per altri, forse, più difficile: naturale, per una sintesi raggiunta che lo pone ago di equilibrio, in virtù dell’intensità, dell’immobilità che acquistano certe posizioni in bilico tra il sublime e il banale. Non dimentichiamo neppure noi, e ne ammiriamo l’opera, che alcune sue cose possono suscitare sorpresa e dubbio, possono ingenerare il timore perfino della inutilità, se non sono riferite alla sua rigorosa concezione unitaria, di cui, esse, sono momentanee manifestazioni; e in tal caso se ne vedrà la profonda bellezza stilistica, l’esatta situazione poetica. Perché in ogni opera di Cagli lo stile raggiunge la poesia.
D’altronde la straordinaria padronanza tecnica di cui Cagli dispone ne fa fede; padronanza che non è tecnicismo, piuttosto naturale disposizione ad eseguire senza che la materia rechi indugio all’opera, senza che la pienezza dell’idea debba, nel fatto, combattere con il mezzo espressivo, essendo quella lotta già riassunta, al momento della prima concezione.
Ecco perché, mai, i quadri di Corrado Cagli, pur proponendo di volta in volta un problema tecnico nuovo, trovano in quello inciampo. La tecnica è riassunta nell’arte; risponde all’immagine fantastica alla quale non manca un rigore d’impegno morale; che spinge Corrado Cagli alla ricerca di un ordine e di una verità ritrovata attraverso un puro fervore creativo.
Le varie maniere della pittura di Corrado Cagli sono in effetti prove, ora allucinanti, ora misterisofiche, iniziatiche, liriche, mitologiche, che conducono ognuna ad un unico punto di convergenza, segnato dal senso della necessità di liberazione, di cui, in ognuna di quelle prove, l’indice è riconoscibile nel rigore dell’impostazione e nella precisione dell’esecuzione. Poiché per Corrado Cagli ordine è già anticipazione di spirito; ordine è elemento indispensabile di poesia, tema inalienabile di ogni visione chiara.
Questo è il punto del suo essere artista e pittore: la chiarezza ricercata e perseguita con i mezzi, tutti, disparati e molteplici, che la vita attraverso la scienza e l’arte gli pone davanti. Quindi non arbitrio, ma coscienza, non incostanza ma coerenza, non assurda libertà ma indipendenza, in un ordine morale e intellettuale strettamente congegnato e responsabile.
Questa ci pare la posizione di Corrado Cagli nella fisionomia difficile dell’arte d’oggi. A parte, quindi, la valutazione dell’opera, possiamo dire che Cagli è una delle figure più conseguenti del nostro tempo, conseguenti prima al tempo che a sé, e ciò lo fa essere artista.
Si annuncia un mondo dimensionale diverso e c’è bisogno di ordine, ma di un ordine che tenga conto delle passate esperienze, che le riassuma e le sviluppi, le inserisca nella nuova poetica realtà, che agisca quindi in profondità.
L’opera di Cagli si svolge in questo senso. Questo è il significato del suo essere moderno: difronte ad un mondo nuovo che si spalanca, un artista ha momenti di dubbio, di abbandono, di sgomento; ed ecco il significato di Cagli pittore dionisiaco, nel senso che la filosofia presocratica dava a quel termine, e più nel senso che ha assunto per noi: coscienza di una esperienza drammatica e poetica.
Corrado Cagli è nato ad Ancona nel 1910.
Dette vita al movimento della Scuola Romana di cui fu l’animatore. Durante la guerra visse negli Stati Uniti e tornò, combattendo, in Europa nel 1944. Ha esposto nelle maggiori gallerie del mondo ed opere sue sono in collezioni publiche e private. Vive a Roma e lavora in uno studio alle pendici dell’Aventino.
«… l’anima doveva mettersi in gara. Onesto fu il punto di partenza di molti espressionisti. Si trattava di signori molto onorabili, un po’ troppo meditativi. Kandinsky scriveva musica, e proiettava sulla tela la sua musica dell’anima. Paul Klee eseguiva all’uncinetto, a un tavolino da lavoro Biedermeier, fragili lavori da fanciulla. Nella cosiddetta arte pura, soltanto i sentimenti del pittore rimasero oggetto di rappresentazione; ne conseguì che il vero pittore fu costretto a dipingere la propria vita interiore. E da qui ebbe inizio la calamità. Il risultato fu che si formarono settantasette tendenze artistiche. Tutti pretesero di dipingere la vera anima. Vi furono anche alcuni gruppi che riconobbero errato tutto ciò, perché l’anima invero è un modello troppo fluttuante; e con ardore infocato si gettarono ad altri problemi. Simultaneità, movimento, ritmo. E questo non era, naturalmente, che liti ancor più inutile idealismo…».
GEORG GROSZ, 1925
La molteplicità delle esperienze figurative di Corrado Cagli non si presenta mai sotto il segno del falso sperimentalismo contemporaneo. Eppure non ve forse in Italia pittore altrettanto sperimentale di Corrado Cagli. Direi anzi che è impossibile accostarsi alle sue opere senza essere provveduti di una concezione del mondo sinceramente sperimentale, vale a dire critica nei confronti della realtà, antimetafisica, pertanto, e rigorosamente materialistica. Di qui un primo chiarimento. I luoghi comuni della critica d’arte corrente affidano al termine di sperimentalismo un significato ben diverso. Lo sperimentalismo è considerato unicamente sulla base del rapporto tra l’artista e le forme del suo linguaggio («immagini che provengono dal mondo della pittura non da quello degli oggetti», ha scritto recentemente l’Urbani a proposito del pittore Vacchi); e, malgrado i più recenti affannosi tentativi di riempire tale categoria d’un contenuto storico e ideale, attribuendo, ad esempio, alla maniera informale, la missione di esplorare e di rispecchiare le cosiddette condizioni alienate e di angoscia, non si è andati oltre ai limiti della giustapposizione immotivata di affermazioni teoriche e di valutazioni generiche dei modi formali delle singole opere d’arte.
Quando il professor Carlo Giulio Argan, preoccupato del vuoto che minaccia di travolgere tutta la linea delle estetiche e delle poetiche non oggettive o non figurative, torna, ad esempio, ad afferrarsi al principio dell’impegno politico in arte, ci trova pronti a continuare il discorso. Ma dovrà procurare di offrire una esauriente risposta al primo ed elementare perché del reiterato automatismo, vale a dire dello sperimentalismo fine a se stesso, e, per la contraddizione che non consente, della assenza di ogni impegno politico nell’inventario cromografico di un Vedova o nella imagèrìe feticistica di un Burri.
Lo sperimentalismo di Corrado Cagli non è mai fine a se stesso. Ciò è dimostrato dal fatto che in esso coesistono sempre i due momenti essenziali d’una ricerca non accademica: quello del rapporto sperimentale del pittore con la storia delle forme artistiche e quello del rapporto sperimentale del pittore con i fatti della vita. Fu tale caratteristica che, nel corso della battaglia rinnovatrice antinovecentista di trent’anni fa, attirò attorno a Cagli l’attenzione di chi al bisogno di approfondire le fonti europee della pittura moderna univa l’istanza di una radicale umanizzazione dei contenuti. Nel periodo intercorrente fra il 1930 e il 1940 ebbero luogo in Italia decisive esperienze in questo senso. E’ singolare osservare come tutte quelle che furono ricche di autentica autonomia morale e creativa stabilirono con la ricerca di Cagli un fecondo rapporto di reciproche influenze, mentre quelle che si limitarono, per intima sterilità, a usufruire dei risultati di Cagli in forma più o meno scolastica, rovinarono in seguito sulla china della moda e dell’estetismo. Tipico, nel primo ordine, il caso di Guttuso e di Mirko, nel secondo, il caso di un Afro o di uno Scialoia.
Non è per utilità polemica che prospetto questo richiamo, ma per approfondire ulteriormente la qualità dello sperimentalismo di Cagli. Se si sommano in una visione panoramica e storica, vale a dire nello spazio e nel tempo, i diversi periodi di cui si compone fino ad oggi la sua molteplicità sperimentale, ciò che più colpisce non è la diversità e la incomunicabilità di esperienze in sé concluse, come potrebbe dirsi, ad esempio, del De Chirico metafisico e del De Chirico naturalista, o del Soffici futurista e del Soffici novecentista, bensì la continuità e la comunicazione, come potrebbe dirsi del Sironi futurista e del Sironi espressionista, o del Rosai futurista e del Rosai realista. In Cagli la continuità e la comunicazione tra momenti diversi della ricerca sono infatti il frutto d’una sperimentazione alla cui base risiede una costante di stile, diretta conseguenza di una costante morale. Prendete una sua natura morta del periodo tonale, di quelle dove lo spazio si apre per evocare, senza descriverla, la presenza quieta degli oggetti, dove, nella più severa eliminazione del superfluo, il carattere specifico delle immagini è tuttavia inesorabilmente inciso da un disegno tagliente; prendete una sua composizione di figure del periodo cosiddetto magico, ma che io chiamerei più propriamente fiabesco, di quelle dove la precedente conquista della composizione per toni primari si arricchisce ad un tempo della emozionalità di tipo fauviste e del più intricato contrappunto romantico, facendo squillare a perdifiato i colori puri più agri ed accesi ; prendete un suo ritratto o una sua decorazione di impostazione classicista, di quelli dove e ricerca tonale e contrappunto romantico e simbologia del colore diventano secondari rispetto alla invenzione, rielaborata dal museo, di una moderna, eroica dignità della persona umana; prendete un suo disegno dove soltanto la linea vale, o uno di quelli dove la linea vale in rapporto al bianco del foglio, o uno di quelli dove né linea né bianco hanno valore ma l’una e l’altro si divorano fino alla più sconcertante resa chiaroscurale; prendete un suo paesaggio di dichiarata ipotesi naturalistica, verificata per via di sommarie astrazioni successive dal verde di ogni singola foglia fino al verde dell’albero intero nella luce meridiana, o un suo paesaggio di dichiarata ipotesi astratta, verificata per via di analitiche deduzioni successive dei più minuti particolari naturalistici; prendete una sequenza della sua cronaca spietata dei resti di Buchenwald, di quelle dove la curvatura delle ossa spolpate e dei teschi viventi, delle occhiaie tenebrose e delle pelli superstiti, consapevolmente elencate a titolo documentario, già preannunciano, per sopravvivervi, le forme continue, concave e convesse, dei suoi moebus della ricerca quadrimensionale; prendete il suo mosaico della fontana di Terni, nelle due varianti di prima della distruzione sotto i bombardamenti e del 1961, dove, come resuscitate, le antiche simbologie si trasformano in moderne misure monumentali; o uno dei suoi arazzi più recenti ricavati da una collaborazione non meno intensa fra l’invenzione delle forme astratte e la concretezza d’un tradizionale, elaboratissimo mestiere; prendete il racconto spoglio della Battaglia di San Martino, appena scaldato, ma con quanta sicurezza, dal senso dell’ora e dell’epoca, con la determinata coscienza di riproporre, dal più rigoroso osservatorio figurativo, un tema tradizionale in termini già largamente neocubisti, e con l’orgoglio di testimoniare in senso antiretorico per il sentimento nazionale italiano così tristemente abbruttito dalla viltà dominante; prendete una qualsiasi delle sue serie di disegni scaturiti dalla pietà umana e dalla indignazione civile davanti alle calamità della natura o alle violenze del potere contro il popolo (Cagli non ha disertato uno solo di questi appelli: gli operai delle Officine Meccaniche Reggiane in lotta contro la smobilitazione industriale, gli alluvionati del Polesine, così come gli assassinati dalla polizia a Palermo o a Reggio Emilia, popolano numerosi suoi fogli dove è, innanzi tutto, fermata, nel segno più limpido, la testimonianza della loro dignità, fuori da ogni uso emozionale ed espressionistico della loro sventura); prendete, infine, le sue più recenti indagini monocrome sul paesaggio italiano, o i suoi ritorni sul tema e sulla forma delle iniziali e mai disertate meditazioni sui simboli biblici (non sfugga la parentela sperimentale e polemica di questi ritorni con quelli, quasi contemporanei, di Pablo Picasso sui simboli spagnoli e sull’opera di Velasquez e di Goya).
Confrontate, paragonate, assimilate ed eliminate, mediante il più scrupoloso esame filologico, la complessa e multiforme fisionomia di tali esperienze. Ne ricaverete, in primo luogo, la nozione d’un diuturno impegno a non far mai scadere la pittura dal piano della ricerca su quello della decorazione o del mero pretesto intellettuale per avventure, più o meno soggettive, della perizia tecnica o dell’estro evasivo.
Messi in rapporto con la contemporanea situazione, italiana e internazionale, della ricerca artistica, i diversi momenti e periodi della sperimentazione di Cagli si presentano come punti di riferimento essenziali per l’accertamento della formazione di ciò che non è perituro nello sviluppo delle arti figurative del secolo XX. Due soli esempi. L’antinovecentismo di Cagli, della cui parentela intellettuale e morale con quello di Guttuso e di Mirko si è già accennato, non si esaurì nel principio della unilaterale sprovincializzazione e della lotta frontale contro la spocchia neoclassica o strapaesana di tipo nazionalistico dalla quale erano state ben presto ingoiate le velleità ribellistiche no-strane dell’inizio del secolo. Oltre questo principio, e già quasi in opposizione a certe sue applicazioni spericolatamente neoromantiche ed esteriormente neoespressionistiche, Cagli salvò, con lungimirante operazione critica, dalla battaglia contro il Novecento ciò che nel Novecento tale non era, e mantenne un saldo, consapevole collegamento con i valori, piccoli o grandi, ma in ogni caso autentici, che la generazione postottocentesca aveva solidamente maturato sulla via del rinnovamento pittorico in Italia. Basti osservare come Cagli nell’epoca che vide da noi i primi tentativi non attecchiti di impostazione astratta (penso alle conversioni di Attanasio Soldati o di Osvaldo Licini) seppe tenersi più dalla parte di Giorgio Morandi anziché da quella della meccanica imitazione di Mondrian o di Klee. Anche se su tale strada le sue capacità di manipolatore degli stili avrebbero potuto farlo approdare, e con quale anticipo, a risultati ben più clamorosi di quelli che oggi qualcuno si affanna a presentare e a valorizzare mercantilmente come gli italici incunaboli della modernità. La modernità a quell’epoca stava di casa altrove, nell’appassionato ricupero della pittura in quanto forma della conoscenza critica del mondo, nel profondo della coscienza civile e morale. Di ciò Cagli seppe testimoniare con un equilibrio e una maturità che, a distanza di anni, possono essere finalmente misurati in tutta la loro portata.
Purtroppo i nostri primi frettolosi compilatori di manuali su quell’epoca della storia dell’arte italiana (di noi assai più ammirevoli per volontà, ma forse un po’ meno per prudenza) non se ne sono ancora accorti, e si limitano, nella loro foga di sistemazione, a infilare uno dietro l’altro, senza nemmeno citarne la fonte, i giudizii polemici, e pertanto non completi, che proprio noi venimmo traendo dalla consuetudine viva con gli artisti, in anni in cui alcuni degli attuali pontefici della critica d’arte erano impegnati nella carriera ministeriale e non disdegnavano di sedere al tavolo delle giurie dei Premi Cremona. Nell’indice analitico di uno di questi manuali si legge: «Cagli, Corrado (1910- ): esordi novecentisti; il «realismo magico» e la Galleria della Cometa; influenza sull’espressionismo milanese». Genericità che attendono elaborazione ben diversa da quella poi affidata al testo.
Il secondo esempio: l’antiinformalismo di Cagli, che si annuncia come la costante principale della sua sperimentazione e ricerca degli ultimi dieci anni, non si associa alla pratica dell’incontro a metà strada tra forme neocubiste o neoespressioniste e il recupero dei relitti antropomorfici dal mare insidioso della soggettività. Il suo rifiuto è radicale, ed egli è consapevole dello scotto che occorre pagare ogni volta che una scelta radicale induce un artista a misurare drammaticamente, ogni giorno, il sempre possibile divario fra intenti risultati. Ciò significa che il rifiuto di Cagli non si rivolge ai problemi che l’estetica e la poetica dell’informale pretendono di far valere come essenziali nell’epoca attuale, ma esattamente al modo come tali problemi vengono posti e affrontati. Si rivolge, in altri termini, alla pittura alienata tentando, semmai, di dare, attraverso una pittura il più possibile libera da ogni preconcetto, un giudizio autonomo sulla alienazione e sulla cultura della alienazione, per contribuire razionalmente al loro superamento e alla loro sconfitta. Mi pare fosse di Wolfgang Goethe il monito contro quei pittori che invece di dipingere le «cose terribili» si limitano a dipingere «terribilmente». Monito che, trasferito sul piano morale del qui ed ora, tanto per usare una delle categorie in uso, si traduce in denuncia della viltà di chi predica naufragi e non muove un dito per scongiurarli. Del resto, da pittore moderno, Delacroix non mancò di ribadire il principio: «La pittura vile è la pittura dei vili».
La presente mostra che raccoglie in prevalenza il disegno di Corrado Cagli dal 1931 al 1961, è un primo contributo alla realizzazione d’una richiesta che già un critico di tendenze diverse da quelle di chi scrive avanzava nel 1957: «Se si allestisse oggi una retrospettiva completa di tutti i periodi dell’attività di Cagli, si avrebbe la buona occasione di rendersi conto di quella sua importanza nella vita figurativa italiana degli ultimi venticinque anni, che già tante volte è stata delineata o indicata o solo sottintesa».
Del modo come Cagli ha portato avanti, con l’arte del disegno, la sua sperimentazione della realtà, mi pare si debba avvertire in primo luogo ed essenzialmente un fatto: che disegno per Cagli è innanzitutto scoperta della struttura e della spiritualità delle immagini così come si presentano al suo giudizio di artista; è, in altri termini reperimento, a volte sintetico a volte microscopico, a volte introspettivo, del limite tra gli oggetti e lo spazio. Il disegno è, per lui, al servizio della realtà, mai la realtà al servizio del disegno, quasi pretesto di abilità riproduttive, o, romantico motivo di variazioni. Quando Cagli si distacca da questa costante del suo stile e della sua coscienza di artista, la lega del suo impegno creativo e sperimentale minaccia di non resistere e scade, a mio avviso, anche sul piano del gusto.
Per questo artista, col quale dividemmo le scelte fondamentali che negli anni bui della tirannide fascista ci trassero alla via della lotta indivisibile per una nuova cultura e per una nuova società, altri ha voluto usare, sul piano delle valutazioni psicologiche, la categoria di permanente insoddisfazione e contrarietà rispetto alle formule acquisite e persino rispetto a tutte le verità quando esse minaccino di divenire patrimonio di tutti. Non mi sento di condividere. Cagli non è un aristocratico. Ho già detto all’inizio di quale natura sia, secondo me, il suo sperimentalismo. Ciò che altri definisce spirito di contraddizione a me sembra piuttosto volontà di opposizione contro i luoghi comuni correnti, per la edificazione d’un nuovo senso comune, più alto, capace di unire gli uomini attorno alla verità. Non è questa, anche nel campo dell’arte, la posta decisiva dell’epoca nostra?
Il discorso su Cagli incomincia in un tempo che sembra remoto, in un momento in cui il « mito » della romanità, sollecitato dalla retorica dei costruttori d’illusioni imperiali, assumeva nella pittura, nella scultura, nell’architettura preoccupanti immagini e dimensioni. La pittura romana aveva esaurito con Scipione e con Mafai le ispirazioni barocche e l’intimismo compiaciuto e sensuale, dando un esempio raro di libertà e d’indipendenza morale. Il fenomeno Scipione apparteneva a una cerchia ristretta d’intellettuali e di letterati: la Roma barocca del pittore marchigiano era senza archi di trionfo, di un colore di tramonto, ancor sanguigna e trasteverina. E Mafai confondeva il sacro e il profano nelle nature morte suntuose, cercando poi, nelle « Demolizioni », il raffinato antidoto pittorico alle affollate figurazioni neoclassiche dei grandi affreschi celebrativi. Cagli aveva scritto, nel 1933, « Muri ai pittori », per imporre, nella dignità di una tecnica riscoperta, come l’affresco, una concezione stilistica, che continuasse, in un certo senso, lo spirito dell’arte metafisica, in netta contraddizione cioè coi fabbricatori di eroi loricati, di guerrieri e di aquile.
L’attivismo di Cagli creava una situazione nuova nell’ambiente romano. I giovani più indipendenti furono sensibili all’appello di Cagli per un’arte « ciclica e polifonica », da opporre al « frammento » dei novecentisti, e anche all’intimismo della « scuola romana ». Si trattava di affermare una « unità delle arti », attraverso la collaborazione di pittori, scultori e architetti, e di proporre in un piano europeo una soluzione italiana di purismo figurativo, ispirata dai modelli quattrocenteschi di Paolo Uccello e di Pier della Francesca.
« Quanto si fa in pittura oggi, scriveva Cagli, al di fuori della aspirazione murale (che ha persino mutato lo spirito della pittura da cavalletto influenzandone l’impianto e la materia), è fatica minore e storicamente vana ». La dichiarazione era troppo decisa e impegnativa, ma corrispondeva a una esigenza « unitaria » e di « destinazione » dell’opera d’arte. I muri richiesti da Cagli dovevano essere sottratti all’imperialismo architettonico di Piacentini nelle costruzioni razionaliste di Pagano, di Lingeri, di Terragni. La « creazione » di nuovi miti, nelle pitture murali di Cagli, doveva corrispondere alle favole primordiali sull’origine della città. Era una volontà di poesia, mascherata dalle proposte stilistiche del purismo quattrocentesco. Cavalli e Capogrossi dipingevano pallide composizioni di figure allegoriche, come, più tardi, Afro e Mirko in un clima pittorico completamente diverso dipinsero o scolpirono in un raffinato gusto di manierismo barocco.
Mirko e Afro aiutarono allora Cagli nei lavori di maggior dimensione: Mirko nell’impresa di maggiore impegno di quel tempo, la grande tempera encaustica, rappresentante la « Battaglia di San Martino », esposta alla « Triennale » milanese del 1936.
« La battaglia di San Martino », rivista anni or sono alla « Quadriennale » di Roma, dopo esser rimasta nello studio di Cagli, smontata, è la conclusione di un periodo di ricerche, avviate coi pannelli del 1935, e risolte molto spesso nelle piccole tempere a cera, delle quali convien ricordare « La notte di San Giovanni ». I « miti » prendono consistenza in un racconto che ha per base la composizione metafisica, nella surrealtà degli incanti prospettici e delle calcolate misure. Il tema della battaglia ha i precedenti famosi nelle battaglie di Paolo Uccello e di Pier della Francesca, con cavalli, lance, guerrieri e paesi, legati in uno spazio animato dal ritmo dell’azione. Dalle piccole tempere a cera al grande encausto Cagli passa con piena coscienza dei problemi tecnici, presenti allo spirito del pittore antico, che passava dalle tavolette delle predelle alle pale d’altare o agli affreschi sui muri.
Il problema non è soltanto quello d’ingrandire un bozzetto.
« La battaglia di San Martino », che Giovanni Fattori con minuziosa onestà ottocentesca aveva « descritto » in ogni particolare delle uniformi e delle armi, fedele alla storia e al paesaggio, nella concezione di Cagli, diventa la battaglia ideale, secondo gli schemi della tradizione umanistica e rinascimentale: diventa la battaglia del mito del risorgimento, ricreato sugli esempi della carica di San Romano e della vittoria di Costantino su Massenzio.
Nessuno, in seguito, riuscì a impostare una scena di battaglia con lo slancio fantastico di Cagli e a rendere, così, attuale, nella validità poetica della rappresentazione, la leggendaria impresa dei soldati piemontesi, senza trasformarli in eroi omerici o in legionari romani. Cagli si manteneva coerente all’appello dei « muri ai pittori », dimostrando con le opere (tra queste la « Corsa dei barberi », affrescata al Castello dei Cesari) come il « far grande », nelle dimensioni e nei modi imposti dalla pittura murale, non coincideva per nulla con « l’imperativo categorico » della pittura celebrativa, nella quale eccelsero Funi e Sironi. Tuttavia la « Caccia » è, dei dipinti di quegli anni, il più lucido, per la misura della composizione, e il più poetico per la qualità dell’immagine. Cagli accorda in questo dipinto elementi discordi ritmici e strutturali e tenta persino di conciliare, nell’unità dell’espressione, fatti divergenti, mimici e allusivi. E’ l’arte difficile delle combinazioni inattese, ripetute poi, nell’arte di Cagli, in un contatto continuo con la realtà svelata dalla scienza o poeticamente intuita. In tal modo si venivano a cancellare i limiti tracciati per i generi pittorici tradizionali.
La « Caccia », considerata nel gruppo delle opere fino al ’38, appare come una logica premessa al nuovo periodo « metafisico », iniziato da Cagli dopo il ritorno dall’America, nel 1946.
La sua attività fu interrotta proprio quando raccoglieva i maggiori consensi tra i giovani, dei quali Cagli fu spesso l’ispiratore, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, e con pieno diritto per l’universalità della cultura e per il severo impegno morale nell’arte. Non c’è contraddizione alcuna con la diversità delle esperienze tentate, per l’insofferenza degli schemi accettati e delle posizioni raggiunte.
Cagli era spinto da una angosciosa volontà di conoscenza, da una attiva partecipazione al tempo, inquieto e inquietante, nell’audace ricerca, nella continuità dell’indagine. Era, quello, un suo modo di essere, non mai mutato, nemmeno nelle ore più tragiche e più disperate. Le forme e le figure inventate da Cagli, attuate nelle infinite tecniche antiche e moderne, sembravano davvero confermare il detto di Leonardo : « La natura è piena di infinite ragioni che non furono mai in esperienza ». Con quei mezzi, Cagli si sforzava di trovarle. Le ragioni della natura erano poi le ragioni del suo spirito, che andava al di là dell’osservazione nel dominio del « meraviglioso », da riconoscere tuttavia anche nei fatti più comuni della vita quotidiana. Era questo il senso del novecentismo bontempelliano, che obbediva a una esigenza intellettuale molto diffusa, soprattutto come reazione all’imperante esaltazione retorica del « vivere pericolosamente » tra le assurde ideologie dei primati politici e razziali.
Cagli ha raccolto nella sua opera prima fermenti e motivi caratteristici dell’arte moderna, ma con una certa indipendenza polemica, che gli consentiva di credere e di far credere nelle favole create a intenzione del mito primordiale; del mito delle origini. (Nel 1937 Picasso dipingeva « Guernica », cioè una storia dentro la storia del tempo: quella proibita, e che rivelava invece l’indomita aspirazione alla libertà, mai spenta dalla violenza dei dittatori).
Il pittore dei miti originari e delle tradizioni più antiche della vita italiana fu costretto, con lo strazio nell’anima, alla via dell’esilio.
E, nella libera America, liberato dall’angoscia di un « presente », che voleva porre l’ipoteca su un secolo, Cagli potè difendere la propria dignità di uomo e di artista, avvicinando una nuova cultura e una nuova scienza, e poi combattendo a fianco degli americani per la libertà dell’Europa.
Il ritorno fu drammatico, per gli spettacoli di distruzione e di morte che ovunque apparivano ai suoi occhi, superando ogni fantasia macabra di pittori medievali di supplizi o di romantici descrittori del terrore. Troppi morti di fame, troppi fucilati e bruciati nei forni, troppi cadaveri, nell’Europa ritrovata, all’indomani di un incubo, come una terra devastata da un ciclone di sadismo e di follia collettiva.
E Cagli documentò, nei disegni dei campi di concentramento e di sterminio, quella realtà, tanto diversa dai « miti » letterari, nei quali aveva creduto. Fu la denuncia e la condanna della bestialità umana e, nel medesimo tempo, la pietà per le vittime di quell’immenso massacro collettivo.
Cagli tornava con queste visioni nell’animo da una lontananza che non gli permetteva più di coincidere colle esigenze della società artistica italiana del dopoguerra. In Italia si tentarono allora i più frenetici aggiornamenti culturali. Finalmente i confini erano aperti alla libertà tanto a lungo negata. I viaggi all’estero diedero la possibilità d’immediati confronti. Ci fu una ventata di europeismo indiscriminato, eclettico nei differenti e contraddittori motivi, come se la cultura artistica italiana dovesse purificarsi e attivarsi, anche attraverso i contatti più impuri.
Era il tempo delle illusioni, delle speranze in un totale rinnovamento della vita e della società, nella ritrovata continuità con lo spirito del risorgimento italiano. Negli anni 1945 e 1946, Picasso dominava la scena dell’arte mondiale. I giovani, dalla protesta di « Guernica » erano arrivati alla rivelazione della « Pesca notturna a Antibes ». Altri miti, quelli « mediterranei », nascevano dall’estro ironico del pittore di Malaga, che, durante la guerra, non aveva sofferto persecuzioni, restando tranquillamente a scolpire o a dipingere o a fabbricare oggetti fantastici e, subito dopo, a cuocere ceramiche nei forni di Vallauris. Il picassismo ebbe la diffusione immediata, tipica dei fenomeni manieristici, in Italia e in ogni parte del mondo. Lo stile Picasso penetrò in ogni ambiente sociale.
Ma il fenomeno culturale picassiano si esaurì presto, da noi, perché ben altri fatti della cultura artistica europea dovevano essere consumati, da Kandinsky a Klee, da Mondrian a Matisse. In quel momento Cagli tornava col suo carico di esperienze sofferte in contrasto con le tendenze europeistiche più seguite. Infatti, che cosa potevano significare, per un artista come Cagli, gli « aggiornamenti », anche se giustificati, nel nostro paese, da una ben precisa ragione storica?
Le sue meditazioni erano rivolte sempre alla possibilità di rendere attuali, nella propria esperienza, i dati di una scelta operata nell’ordine di una tradizione italiana, determinata di volta in volta nei modi del manierismo toscano cinquecentesco e dei caracceschi, poi della pittura metafisica dechirichiana.
I disegni del ’45-’47 non sono molto diversi da quelli dedicati alla rotta del Po nel ’52-’53, e da altri più recenti, di un estremo virtuosismo grafico.
La mostra, tenuta alla galleria « Palma » di Roma, nel 1947, rivelò il nuovo orientamento dell’arte di Cagli, nella complessa involuzione metafisica, per incastri di forme, che obbedivano a una rappresentazione prospettica quattrocentesca. Nascevano le forme simboliche, ma non astratte, perché, secondo la logica esigente dell’artista, il racconto continuava, aderendo al nuovo corso (così allora si credeva) della società italiana. « Il popolo » (1946) e « Icaro » (1946) sono le proposte di quel momento di storia, dominate dall’angoscia espressionistica, ma già con accenni alle architetture più ardue, agli illusionismi geometrici del 1947.
Di fronte al picassismo, Cagli affermava il diritto della tradizione metafisica in una pittura che Bontempelli definiva di « una naturalezza, alla quale non si arriva per formule, ma per immaginazione lirica ». In questo caso « l’immaginazione lirica » di Cagli si moveva nella direzione più autentica dell’arte europea, che, secondo quanto diceva allora Bontempelli, si allontanava dalla « narrativa per avvicinarsi alla musica ». Il gioco cinese delle scatole inserite Luna nell’altra rappresenta una condizione di angoscia, che doveva essere superata con le squadre, le righe e i triangoli, nel nome della musa geometrica.
La volontà di rappresentare lo spazio a più dimensioni deve ricorrere alla geometria pura, perché anche nella «Nascita» (1947), nel « Malgoverno » (1947) (i due titoli sembrano offrire una sintesi delle esigenze poetiche e morali dell’arte di Cagli in quel momento di transizione) l’illusionismo prospettico metafisico domina come nei « manichini » dechirichiani. E’ ancora il senso della solitudine dell’uomo, malgrado il suo assillo di « partecipare », chiuso nella magìa delle forme inventate o nell’intrico delle linee, che vogliono rappresentare il mondo bontempelliano « dell’ennesima dimensione ». Cagli è affascinato da questa nuova avventura, alla quale lo avevano preparato le letture scientifiche e, certamente, molti aspetti della vita americana moderna.
Per tradurre in realtà le proprie immagini, nel passaggio dalle prospettive multiple alle ragionate figure di quarta dimensione, Cagli dovette compiere le più abili e pazienti acrobazie grafiche, insieme alle attente sovrapposizioni di sagome e di stampigli diversamente colorati.
Nella mostra di disegni alla galleria del Secolo, nel 1949, Cagli non si preoccupò più di « rappresentare », bensì di costruire figure, ispirate dai solidi del Donchian, con un intrico di linee pure e nitide. Applicazione rigorosamente scientifica o non, piuttosto, un processo interiore di liberazione dai limiti troppo stretti del mondo metafisico? Le « figure » diventano sul piano bianco pure linee, al di fuori di ogni convenzione chiaroscurale. Cagli dichiarò nella prefazione al catalogo di « ispirarsi allo spirito e al gusto ottico della proiettiva che il Donchian ha adoperato per rappresentare i solidi in quarta dimensione », affidandosi soltanto alla linea per esprimere visivamente gli spazi che si compenetrano. La linea sostituisce il filo di ferro, ma il foglio bianco non sostituisce delle dimensioni non rappresentabili. Il presupposto scientifico, che rivela l’interesse dell’artista per la « cultura » del suo tempo, si trasforma in un pretesto per inventare le più imprevedibili combinazioni grafiche.
Bisogna ricordare, a questo punto, che Cagli è un disegnatore capace di trovare in ogni caso il mezzo più proprio per esprimere anche le più arcane intenzioni della volontà di conoscenza, perennemente sollecitata dalla mobilità del suo spirito.
E i mezzi sono i segni, le linee, gli alfabeti, usati con la scioltezza, senza pentimenti, di un calligrafo orientale. Già in opere come la « Lanterna », Cagli aveva fissato la traccia della successiva semplificazione della forma in linea di puro contorno nel corso di uno svolgimento logico verso l’astrazione.
Ancora una volta, ricorrendo al pretesto dell’ispirazione scientifica, Cagli si mise a disegnare tessuti cellulari, divisi in fasce verticali, come ingraditi al microscopio elettronico, e con spazi aperti alle lettere magiche di misteriosi alfabeti.
« Ritmi cellulari policromi » rappresenta la sintesi del tracciato della « Lanterna » e dei valori lineari dei disegni pluridimensionali meglio che opere come « Carboni e voli », che è troppo calligrafica, o come « Takoma » (1949), di una composizione troppo gremita. (Ma questo è un tentativo non risolto nell’immagine o anche in una parvenza poetica. E’ rimasta l’idea decorativa dello stile « botanico » del liberty). Dopo l’uso degli stampigli, in funzione di effetti luminosi multipli, come in un gioco di riflessi da specchio a specchio, Cagli ha sperimentato le foglie secche di un erbario disposte sulla carta e pressate con un rullo imbevuto di colore, in una gamma di tonalità che vanno dalla terra verde alla terra d’ombra. Sovrapponendo le varie foglie si ottengono delle specie di impronte colorate, molto simili alle sete sbiadite e alle stampe ingiallite. Nascono così dei paesaggi boschivi, somiglianti alla carta da parati, incollata sulle pareti o sui paraventi, e che ha per leitmotiv l’albero, ripetuto sulle strisce verticali di un favoloso paesaggio. Le cellule hanno dato vita ai verdi secchi dei « Boschi del Lemery » (1950); agli umidi paesaggi immersi nelle nebbie, in cui gli alberi appaiono spettrali. Sono le foreste del Nord, vedute con estro romantico, dopo la parentesi grafica, proprio come se dovessero servire per le scene dei melodrammi verdiani. (Qui si apre una parentesi per dar notizia di una scenografia di Cagli, per il « Tancredi » di Rossini [1952], in cui i boschi dipinti assumono, alla ribalta, la dimensione della profondità, sotto la sapiente modulazione dei fasci luminosi. Cagli ha il gusto e l’amore per la scenografia: il suo rapporto col teatro è costante, attraverso le « apparenze », quasi fantomatiche, di cose e figure, immerse in un’atmosfera di sogno. E’ raro trovare di questi tempi una interpretazione tanto romantica del melodramma, fuori del realismo descrittivo degli scenografi tradizionali). La pittura si avvicina alla musica, come voleva Apollinaire. O diventa tutt’uno con essa.
Ma gli elementi astratti, di una pittura risolutamente geometrica, tornano soprattutto nel « Motivo epico » e nei « Sepolcri » e in « Impronta d’aprile » (1950), come un omaggio a certa contemporanea cultura europea, dipinti con stampigli di cristallo, accanto a una serie nuova di opere, come « Variazioni cromatiche cellulari in chiave di giallo» (1950) e il « Grande ritmo con evocazioni » ( 1950), in cui appaiono i fondi di sedia in canna d’india, i veli, i ricami, le reti metalliche, usate sempre con lo stesso metodo della sovrapposizione e dell’impronta, con effetti sempre più ricchi e suggestivi.
Sono piani di colore pulito, spesso stesi con lo spruzzatore (nel 1950 la gente si meravigliava di chi dipingeva senza adoperare il pennello), sono piani esatti, senza sbavature e senza macchie: sono forme di una visione lucida e fredda. La spazialità multipla, come s’è detto, si ottiene col gioco mutevole delle prospettive luminose. Da una luce intensa si passa alla profondità oscura dell’ombra. E questi passaggi avvengono con un mobilissimo ritmo, che fa apparire anche più forte il contrasto e più vitale l’effetto. E’ la ricerca dell’attimo, in cui tutto concorda per esprimere intensamente lo slancio vitale di un uomo proiettato verso il futuro.
Nell’angolo di una acquaforte di Piranesi si legge: « Col sporcar si trova ». Cagli invece trova con la nitidezza dell’immagine, con la pulizia della tecnica. Non si riesce a capire come Cagli, passando da una ricerca all’altra, dia sempre l’impressione di aver risolto prima ogni problema espressivo, tanto i suoi dipinti sono perfettamente eseguiti. E’ una perizia costantemente affermata, e che è l’indice della fondamentale serietà dell’artista, soprattutto nelle recenti decorazioni per la « Leonardo da Vinci » e negli arazzi eseguiti in una fabbrica artigiana di Asti. Il segno del tempo è nelle prigioni e negli inferni che il pittore ha dipinto nel viaggio attraverso i prodigi dell’inconscio o le apparizioni della memoria. C’è la violenza e il senso del meraviglioso: c’è l’ardore delle evocazioni passionali e il calcolo fermo dell’intelligenza; c’è l’anelito alla serenità contemplativa e la realtà dei conflitti e dei dilemmi della coscienza; c’è, sottinteso, l’amore del rischio, che è dell’uomo d’oggi, nella vita e nell’arte. E il rischio è sempre quello determinato dalla fantasia e, insieme, dall’amore per la libertà. Cagli, disse una volta Guttuso, « è un uomo coraggioso e leale in pittura: è un uomo capace di andare fino in fondo alle proprie convinzioni, capace di contraddirsi senza “ rispetti umani ” di tipo intellettuale: il suo lavoro procede a cicli entro ciascuno dei quali egli sviscera spietatamente il problema che di volta in volta si è posto; ed in tutta la sua ascesa si sente lo stesso fervore, la stessa autenticità, la stessa natura ».
Ogni riferimento ai differenti cicli, susseguitisi dopo il 1946, fino ai più opposti, delle sigle, delle carte spiegazzate, dei personaggi mitologici, è indipendente dai grandi flussi e riflussi della cultura artistica europea e americana contemporanea. Cagli ha di tanto in tanto la nostalgia del « manierismo » del tardo cinquecento toscano, e crea nello stile del Pontormo o del Rosso Fiorentino, o di altri minori, con una caratteristica infedeltà alle più sicure conquiste in uno spazio che si estende dall’arte astratta al surrealismo, e che non è certamente uno spazio provinciale. Quando ci fu la rotta del Po, Cagli si mise a disegnare episodi di quel biblico evento, spiegando le sue intenzioni così : « Mi son trovato costretto dalla mia coscienza a disegnare i vari aspetti del disastro perché disegnare vuol dire appunto capire e giudicare ». Per il disastro del Polesine, Cagli pensò subito al disegno e non all’affresco dei primi anni. E i disegni, che furono esposti nel 1952 all’« Obelisco », rivelavano, al di là di ogni retorica solidarietà, una vera commozione dell’anima, quella partecipazione che i veri artisti non rifiutano mai. I disegni migliori sono quelli inventati, non documentari, curiosamente vicini alle incisioni picassiane dei saltimbanchi e degli arlecchini.
L’altalena tra un modo e l’altro dell’arte astratta e figurativa (usiamo pure questi termini imprecisi) rivela la spregiudicata libertà dell’artista, che può passare indifferentemente dai fantasmi dello « Straniero nello Sceol » (1954) ai simboli magici della « Flotta arunta » (1956), dall’intreccio grafico di « Il pastore » (1949) ai curiosi volumi cubisti e dadaisti di « Agostino » ( 1958), uno dei tanti quadri della serie delle carte spiegazzate, da « Due modi in uno » (1951), in cui la simultaneità visiva è data dai sapienti incastri dei piani luminosi, a « Enigma a Naxos » ( 1963), in cui sono evocati aspetti di remote civiltà nella luce violenta dell’esasperato colore; e anche dalle sculture di canne unite (1955) alla scultura in argento (1961), modellata nello spirito di un idolo cicladico, con piani ritagliati e sovrapposti. Il gusto dell’arcaismo dei simboli e delle scritture non impedisce a Cagli di dipingere un « Salotto bono » (1952), con veli e merletti e tappezzerie, che potrebbe essere un ironico omaggio a quello, storico, della contessa Maffei. L’intimismo si mescola con l’amor dello strano, del bizzarro, del meraviglioso, in dimensioni e in applicazioni sempre diverse. In fondo Cagli non ha mai dimenticato di voler « integrare pittoricamente » gli spazi ideati dagli architetti: ma chi accoglie le sue creazioni sorprendenti e, talora, enigmatiche? C’è sempre qualcuno che diffida della spregiudicata fantasia di Cagli, così individuale, così indi- pendente dalle correnti più seguite del tempo. Si diffida di chi ama cercare da solo, senza chieder nulla a nessuno. Il distacco di Cagli dall’arte europea, come si dice, più « attuale », può rivelare forse una presa di posizione polemica, ma in un modo indiretto, cioè nel senso suggerito da una vera necessità di espressione, al di fuori di ogni conformismo culturale. La cultura di Cagli, rivolta alle antiche civiltà e alla musica, alla poesia e all’architettura, dimostra quanto il pittore ami uscire dall’isolamento caro a troppi aristocratici abitatori delle torri d’avorio, superando i limiti delle sette e delle tendenze. Allora è vano accusarlo, come certi critici hanno creduto di fare, di esclusivo « tecnicismo », di aridità razionale, di povertà inventiva.
Invece Cagli arriva all’arte anche per le vie della tecnica pura: ci arriva attraverso le spiegazioni scientifiche, i capricci, gli slanci romantici; insomma per infinite vie, ignorate dai conformismi della sperimentazione quotidiana. Cagli, accusato di razionalismo, potrebbe far sue le parole di Kandinsky, a proposito del presunto metodo scientifico per giudicare i valori dell’arte: « la ragione, oggi troppo sopravvalutata, distruggerebbe il dominio dell’irrazionale, il solo che ancora rimanga alla povera umanità contemporanea ». E scriveva queste cose nel 1938, quando in Europa e nel nome della ragione si condannava l’arte degenerata, che era invece l’arte del secolo.
Anni or sono, presentando Cagli alla « Giostra » di Asti, scrivevo: « Fissare la presenza di un pittore come Cagli nel tempo che va dal 1930 a oggi, cioè in un tempo che segna il progressivo distacco dall’eclettismo del “ Novecento ”, diviso tra l’oratoria celebrativa e l’intimismo piccolo borghese e provinciale: dichiarare il significato della sua presenza animatrice è un dovere trascurato dalla critica italiana che troppo spesso rinuncia a informarsi e documentarsi ». C’era, forse, in quelle parole, una punta di esagerata amarezza; ma non si può dire che nemmeno oggi sia stato riconosciuto a Cagli il merito che gli spetta in un vasto settore dell’arte italiana moderna, dagli anni della « Scuola romana » a oggi.
Tale ingiustizia, per merito di Enrico Crispolti, sempre attento a indicare e a rivalutare, sarà quest’anno tolta di mezzo, con un « omaggio a Cagli », organizzato alla mostra dell’Aquila, che tanti consensi raccolse, l’anno passato, per la sua vitale impostazione critica.
E l’omaggio a Cagli si arricchisce così della serie pittorica delle « Siciliane » e dei disegni a penna su carta di riso. Ancora una volta, Cagli afferma la propria personalità nella duplice direzione della grafica e della pittura, e con un prestigio sempre maggiore. Sono, queste composizioni, ritmate su un motivo d’ilare grazia, su cadenze di una freschezza e di una purezza d’invenzione coloristica e grafica ben rare oggidì. E queste composizioni suggeriscono le armoniose ondulazioni della fantasia, simili alla mobilità delle acque o al fremito delle foglie. E’ la fantasia, ispirata dalla natura e dalla cultura, in una sintesi singolare, proposta in anni lontani nello stile delle stampigliature vegetali, continuate con le mitiche metamorfosi dei disegni di rami e di foglie, di fibre e di vene, che diventano volti e figure.
E’ sempre l’amore del silenzio e della solitudine, in un tono più alto, dentro le selve della realtà e del ricordo, nella magica luce di una Sicilia, rivissuta simbolicamente nelle sue cellule più segrete e più misteriose.
Non a caso si parla di cellule nella vibrante germinazione di un tessuto pittorico chiuso nella spontanea felicità dello stile. A volte tessuto, a volte labirinto vegetale, in quell’ordine di gusto, che si potrebbe definire « neo-liberty », la pittura è spiegata, nella sua struttura più nascosta, dalla traccia rivelatrice del disegno.
L’idea pittorica di Cagli è rivelata dalla nitida individualità della linea, carica di ogni potere espressivo, libera, nel suo tracciato, da trucchi e spurie inserzioni, come le macchie e gli spruzzi. Il disegno si fonda sulla inesorabile responsabilità della linea, che fissa l’ordito, la pura trama della fantasia.
E’ una esigenza che nasce ancora una volta dall’impegno morale, come nei disegni a più dimensioni, come nei disegni di foglie, che racchiudono nell’intricato arabesco i più impensati profili di volti o di pesci.
Si assiste cioè al formarsi della pittura nei suoi tipici motivi strutturali: in « Bacco a Giarre », dalla sintesi mitica e favolosa; in « Con amore », dall’incanto luminoso dell’ermetico labirinto di motivi pittorici e grafici; in « Memorie a Castelmola », che ripetono, come in un grido impetuoso di felicità e di libertà, la evasione nella favola, il ricordo di un mondo e di una civiltà perduta dell’« Enigma a Naxos ». La Sicilia si lega alla Grecia, in un rapporto meramente poetico di tempo e di spazio. L’antichità rivive in un presente, che ha il moto stesso della vita, del respiro e del sangue; in un presente, che accoglie l’intera esperienza del pittore, tanto più complessa ed estesa di quanto s’è detto fin qui.
Infatti il moto della vita è il moto dello spirito perennemente alla ricerca di una forma in cui sopravvivere: e di forme create e distrutte, nella disperata volontà di vedere e di andar oltre, è infinitamente ricca la vicenda umana e pittorica di Cagli.
Ma oggi è la sua stagione più bella, per una specie di felicità ritrovata nell’atto sempre meraviglioso del disegnare e del dipingere. Cagli è arrivato, di sorpresa in sorpresa, a una tale ricchezza interiore, che gli consente di essere compiutamente libero, in un paese di classici miti e d’incorrotta bellezza; cioè di vivere in una realtà senza tempo, non più metafisica o astratta, nel rapporto ben stretto e sensibile con gli aspetti più manifesti e più misteriosi di un paese che invita alla « scoperta » quotidiana. Per questa via, la scoperta magica della Sicilia coincide, nell’opera attuale di Cagli, con un approfondimento decisivo dei motivi più veri e più nascosti dell’esistenza stessa dell’uomo e del poeta.
Di profilo, quando sta fermo, somiglia a Voltaire che gioca a scacchi. Non conosco il gioco degli scacchi. Perdo in partenza: ma mi piace controllare nello sguardo di Cagli il lampo di soddisfazione. Non siamo mai d’accordo su niente: il solo incontrarci genera un alterco. La sua logica vuol farmi a pezzi. È una macchinetta pulita, con tanti dentini di pesce. Ma sono duro da rosicare. Perché avrei dovuto ammettere l’africanismo di Picasso? La disputa si protrasse fino alle ore piccole e non riuscimmo ad accordarci.
Le serate milanesi sono tranquille. La traversata di questo volatile le rende meno bonarie. È come se nella nebbia spuntassero, al suo passaggio, mazzetti di spilli. Non spilli di sicurezza prodotti in serie dalle solite fabbriche di Milano. La sola comparsa di Cagli immette una corrente pungente nel traffico normale delle relazioni.
Meno quieto vivere e più verità, più malizia e scioltezza. Meno rispetto e più libertà: il contatto si trasforma in una continua frizione. Un’aria più leggera e nervosa prosciuga l’umido intorno: qualche favilla, qualche punzecchiatura, e il deambulare diventa più spedito lungo la corsia ovattata di via Manzoni.
Sto facendo l’elogio di Cagli? Non so bene. Quello che vado dicendo corrisponde a una sensazione reale della sua presenza.
Il mio primo incontro con Cagli a Milano risale a trent’anni fa. Me lo presentò Arturo Martini. Una sera l’andai a trovare in un appartamento quasi vuoto fra Santa Annunciata e Corso di Porta Nuova, nella zona dei Giardini. Cagli dipingeva allora piccole e grandi composizioni di battaglie. Le piccole su di una sedia, la teletta poggiata alla spalliera. La sera lo vedevo agli angoli di via Brera confabulare come un cospiratore. Era un piccolo profeta al comando di un gruppetto di ragazzi che esercitava in segreto la pittura. Ricordo il suo profilo di coltelluccio tagliente anche quando era chiuso. Metteva un certo fanatismo in ogni gesto e parola: un fanatismo illeggibile al primo incontro. Dovunque si trovasse faceva sommossa. E questo gli è rimasto.
Non amo gli spiriti prudenti. Una delle ragioni che mi incuriosirono: la straordinaria capacità di farsi intendere, di ribellarsi, di prendere posizione contraria. Era sempre contrario con lo sguardo, con la parola, col silenzio, con tutto il corpo. Una contrarietà lucida e provocante. Una contrarietà fulminante per le regole e i regolamenti: arte, stile, vita, passato e avvenire.
I quadri che andava dipingendo erano assai diversi da quelli dei suoi coetanei e si riconoscevano al primo colpo d’occhio. Non saprei dire quanti anni avesse, se quattordici o venti. Neanche ora lo so che ne ha parecchi. Lo studente di Praga che ha venduto l’anima al diavolo tre o quattro volte. La sua anima fiera sempre più avanti del suo sguardo e della sua idea.
Non lo vidi per cinque o sei anni. Seppi che si era arruolato nell’esercito americano per fare la guerra: e la fece sul serio! Poi tornò, riprese il suo berrettuccio e fece la guerra con la pittura come sempre aveva fatto.
Il diavolo negli acquisti è molto esigente. Per qualità, capacità, ricchezza e varietà di contenuti, l’anima di Cagli così mobile e inquieta doveva piacergli. Inquietudine calda e fredda. A un certo grado, brucia anche il ghiaccio. Non so se il diavolo fece un buon acquisto. Cagli gli dette certamente filo da torcere. La sua indipendenza ad oltranza non è di quelle che possano essere governate da una sola idea e da un unico sistema.
Sappiamo assai poco dei suoi studi e della sua formazione. Uno spirito prensile e divoratore come il suo cava grano anche dalla segatura. Al nostro primo incontro era appena uscito dall’infanzia. A sentirlo sapeva già tutto: storia, letteratura, arte e stili. Un ribelle eclettico, logico e sentenzioso. Le sue simpatie e antipatie erano fuori dai cataloghi correnti e in un certo senso, anacronistiche. Della giovane scuola romana non aveva subito la minima suggestione. Era fuori dal tempo storico e anche fuori dal simbolismo crepuscolare: né pagano né cristiano.
Un’immaginazione colta, flessibile a qualsiasi allarme e prontissima a comunicare, associare e districare. Un calamaio latino pieno di memorie.
Alla fine della guerra quando Cagli si congedò dall’esercito americano fece circolare fra Roma e Milano alcuni fogli dei suoi quaderni di disegno. Le truppe corazzate sembravano battaglioni di un esercito mitologico e gli avvenimenti di sangue ai quali aveva partecipato, brani omerici. Il presente di Cagli si perdeva nella notte dei tempi. La sua immaginazione aveva riunite in una tutte le guerre che si erano svolte in diecimila anni nel bacino mediterraneo.
Una natura ricca assillante e contraddittoria assai difficile da catalogare. Cagli si presta poco a essere riassunto in una formula. La sua libertà ad oltranza lo tiene fuori dagli schieramenti automatici, dalle idee fatte, dai chimismi estetici. Spregiudicato al massimo e libero da qualsiasi vincolo di sudditanza condizionata è un uomo fedele ai principi e agli ideali. Un solista inconfondibile in mezzo a un corpo orchestrale fra i più mutevoli. I suoi attacchi, le sue pause, le sue riprese non combinano e non assimilano il tono generale. Quando meno te lo aspetti cambia strumento e timbro: cambia partitura e orchestra.
La direzione unica e i semafori mal si addicono a uno spirito intollerante come il suo, affamato di sé e sempre in orgasmo per ciò che può estrarre e moltiplicare.
Uno dei doni più seducenti di Cagli è il suo modo di sorprenderci.
Nelle sale che l’architetto Ignazio Gardella ha creato per il Civico Padiglione d’Arte contemporanea, alla Villa Reale, il Comune di Milano ha reso omaggio all’arte di Corrado Cagli con una grande «Mostra antologica» in cui sono esposte al pubblico duecentotrenta opere che vanno dal 1931 ai giorni nostri. Merito del Comitato organizzatore della Mostra presieduto dal dott. Lino Montagna assessore all’Educazione del Comune e presidente dell’Ente Mnifèstazioni milanesi e composto da Franco Russali, direttore, della Pinacoteca di Brera, da Raffaele Carrieri, Raffaele De Grada, Gian Guido Belloni, Direttore, delle Civiche Raccolte d’Arte di Milano, dall’architetto lgnazio Gardella che con acuta intuizione ha creato la disposizione continua ed intelligente ed affatto scolastica dei dipinti, sculture, arazzi, tempere, disegni. Essa ci guida a capire molte cose di cui si dirà particolarmente e in misura ben precisa perché un discorso così complesso e profondo quale è quello di Cagli è non solo il discorso di un grande artista che non accetta e ovviamente non teme le programmazioni ideologiche o le sollecitazioni di indole politica, da qualunque parte esse provengano, ma tiene ad affermare quella che è una fondamentale necessità allo spirito dell’uomo: la libertà nell’unica misura della qualità e dello spirito creativo. In tale senso, era significativa la presenza alla inaugurazione di Gian Alberto Dell’Aqua Soprintendente alle Gallerie della Lombardia e Segretario Generale della Biennale di Venezia e di quanti, poeti, artisti, uomini di cultura hanno voluto testimoniare a Cagli, oltre quelli già ricordati, la loro solidarietà: da Ungaretti a Dino Buzzati a Guttuso, da Francesco Siciliani a John Huston, a Ramy Alexander, ad Alberto Mondadori e i nomi vorremmo ricordarli tutti proprio perché la diversa provenienza è indicativa di una adesione e solidarietà ampia e profondamente umana non solo da parte dei critici d’Arte.
Quando a Milano, nel primo numero della rivista «Quadrante» del maggio 1933, Cagli che aveva poco più di vent’anni pubblicò quel famoso scritto, che segnò un punto fermo di partenza – precisa Franco Russoli – nelle vicende polemiche della lotta culturale per una nuova pittura parietale, libera dagli schemi della «retorica» e che «prese posizione contro il manierismo classicheggiante dei celebratori delle glorie del regime» – scrive Marchiori – egli non soltanto intuì le ragioni di una intelligente e coraggiosa polemica, ma creò il presupposto fondamentale di quello che era il carattere e lo sviluppo della sua poetica. Una poetica, già alla radice, nel rigore di una composizione in profondità sottilmente ragionata, ma sin dal suo punto di partenza mossa da una intuizione fantastica e creativa di libertà espressa proprio in quel sottile rigore di rapporti tra la immagine in movimento e lo spazio in cui essa è concepita. Parlo della Battaglia di San Martino e Solferino del ’36, parete a tempera encaustica alla Triennale milanese e oggi alla Mostra: un racconto ricco di libertà fantastica, pur nel suo rigore compositivo, e che si esprime in movimento di immagini figurate con una luminosità timbrica e gioiosa del colore su uno sfondo di piane di taglio cezanniano che gradualmente si stagliano e sfumano alla luce.
La luce è sempre, alla origine, come il movimento, nella qualità della gamma cromatica quanto in Paolo Uccello, ad esempio, per una diversa situazione storica e di pensiero dell’artista e quindi di possibilità creative, il senso volumetrico della immagine s’impone nel carattere della figurazione plastica di cavalieri fermati nell’attimo stesso del movimento. E quel «movimento» è nella misura ideale di un tempo e nella ricchezza dei dettagli emergente in una misura poetica e prospettica che, diversamente, ma per affinità di carattere si imparenta alla fiaba tardo gotica di Pisanello e per la «misura ideale del suo tempo» si ferma a Lorenzo Monaco. Non riesce ad entrare nel pieno di un umanesimo che intuirono Brunelleschi, Masaccio e Donatello.
In una diversa situazione storica e di pensiero la composizione del giovane Cagli non solo in una «misura intellettuale », non è aderente all’antico, se non per una serietà di impostazione, potremmo dire, che è imparentata al rigore di un antico o moderno maestro, ma sovratutto è ricca di sviluppi per l’avvenire e non soltanto della sua pittura. Circa dieci anni prima Carrà ricordava Giotto attraverso Puvis di Chavannes e la metafisica di De Chirico che del resto era stata anche la sua metafisica sin dal ’17 e che si proiettava ancora nel ’35 attraverso accenti sironiani in «Atleti seduti» e nel ’45 in «Modella seduta». In tale carattere l’avvenire si fermava a una immobile poeticità contemplativa, sulle rive di un eterno e sublimato naufragio lirico. Sironi che era di ben diverso temperamento e l’autentico Sironi non era nelle pareti celebranti il mito, ma nella realtà solitaria di un mondo periferico e nell’imponente frammento, relitto grandioso o patetico di una classicità di memoria alla mente dell’uomo, fin poi alle larve drammatiche delle ombre plastiche dell’umano disarticolate nel tempo, per contrapposto poteva agire come stimolo pungente ed inquieto alla fantasia, alla sensibilità e alla mente di Cagli ricca di diverso temperamento.
Anche al tempo del «barocco romano» e della «scuola romana», caratteri che confluivano alla luce e alla forza di un temperamento allucinante e di un espressionismo surreale e ricco di umori reali quali in Scipione, il giovane Cagli più che alimentarsi alla vena del «tonalismo pittorico» che è l’altro aspetto quello più «poeticamente mite» della scuola stessa, tormentava la linea nel disegno del «Davide» (e siamo nel ’38) quasi aggrovigliata temperie del tratto che non trova più posa. Quindi dalle immagini espressioniste e di boccioniana scomposizione di Hocs, 1940, qualche anno più tardi per le «Termopili Normandia» egli ritorna alle linee, ai segni di contorno nelle larvali immagini di un ellenismo che in sé si vuota perché qualcosa di più reale incombe alla coscienza dell’uomo. Lo aveva già avvertito nella solitaria figura di «Le Formiche» della Collezione Pecci Blunt in una dimensione dello spazio che non è di natura, di «paesaggio», ma interno allo spirito dell’uomo. Nella intuizione poetica di amore e di morte e senso della vita nasce l’autentico e originale mondo fantastico di Cagli. In lui il mito di Orfeo si rinnova. Ma non è solo magico, o surreale, per quanto queste due componenti siano importanti per la sua arte. Vi è una interiore realtà che traspira da questo suo idillio poetico in cui l’uomo quasi schiavo sembra ritrarsi e invece vi respira continuamente il calore della sua vita medesima: poetica ed umana. Quando nel ’38 Cagli va a Parigi e poi negli Stati Uniti, dove si ferma a New York, non è soltanto in lui il maturarsi di una cultura europea, ma , il maturarsi del linguaggio di quel suo mondo poetico ed umano.
In «La Bourdonnaise» che è del ’39 egli aveva sentito il bisogno di dare un accento timbrico di carattere espressionista al segno e al colore in una composizione il cui sottofondo pittorico poteva essere un Braque che saliva alla superficie con una natura fauve (Derain per esempio). In «Collage» del ’40 il frammento di «cronaca» dei caratteri tipografici pittoricamente si inserisce in una astratta essenzialità di movimento della immagine-colore. Non si trattava di due vie distinte, ma di esperienze diverse che conducevano a una complessa espressione poetica e la cui radice fondamentale è unica. Il mito, è vero, sta a cuore al giovane come un giorno all’artista maturo, ma non come espressione letteraria. Il mito gli serve solo per dare una forma alla dimensione della sua coscienza poetica. Così, se la intelligenza di Cagli abbraccia con vivida energia tante e anche grandi esperienze di artisti è per il suo fine poetico. Unicamente per la sua umana finalità poetica. La radice espressionista non degenererà mai in un segno di torbido manierismo, così come la necessaria «astrazione» non cadrà mai nella «formula» concettuale. Egli è artista di troppo grande ingegno, per non capire che non solo Picasso e Klee sono i due poli opposti, anche se fondamentali nel loro esistere, proprio di stretta necessità In una situazione europea.
Cagli è l’unico che abbia inteso a quali possibilità poetiche potesse andare incontro il Surrealismo spogliato finalmente delle ambiguità emblematiche e della macchina «esterna», «figurata» del sogno onirico. Il motivo poetico vive, nella sua opera, nella sottile dialettica che è interna al valore della immagine. Egli ha anche intuito quanto fosse necessario svincolarsi da una metafisica che rischi di diventare un fatto puramente letterario. In lui è tanto più viva la misura essenziale di una realtà in senso negativo, in quelle grandiose e macabre larve vuote del ’47, nelle loro apparenti strutture ferree dove solo può annidarsi una solitudine mortale. Qui il senso del «vuoto» ha la sua essenziale necessità espressiva. Il gelo metafisico della «Nascita» coesiste con l’allucinante tensione del «Malgoverno» e quindi in altro senso la radice espressionista non degenera mai in lui in un segno di torbido e involuto manierismo di gusto macabroviscerale. Quando egli si avvale anche del segno misterico della immagine la sua proposta non è affatto sentimentale, ma sottilmente di carattere poetico. Da «Altre stanze», al «Grande interno» al «Pescatore e !a luna» e poi al «Matto dei tarocchi», a «L’Arca di Noè» a «Ipnosi» (e siamo verso il ’50) quel senso di poeticità esoterica affiorante dai più lontani limbi della memoria, riconduce ogni segno di colore, ogni tratto della immaginazione a una sua dimensione solo apparentemente contemplativa. In tal senso «Ça Ira» è li momento della riflessione sui retaggi di «Guernica» e un’opera particolarmente importante. Poi dal ’52 i «Demoni di Primavera» che si ripetono splendidi e più forti l’anno seguente, nella grande eredità di Klee risolta dal suo magismo interiore, lo portano fino al ’55 con le «Iterazioni cromatiche» e quelle «concertate» e sovratutto «Allusioni e inganni» e «Il Castello» alla misteriosità che è pure un sentimento intimamente religioso del laico Kafka. Qui la umana incomunicabilità con il lontano e invisibile Imperatore ha strade e itinerari infiniti anche se possono evadere dai lunghi sonni della mente i sottili demoni sfumati e larvali negli azzurrini, rossi, lievi bianchi (Discesa nello Sceol) o precisarsi in profilate, allucinanti linee di contorno, quasi riti magici (Basket Makers).
Quando Cagli avvertì il fascino dell’action painting nella vitalità del tratto ed impeto di colore non si lasciò trascinare dalla dimensione «disperata» che Pollock intuì tragicamente, né dalla lugubre malinconia introversa alla Wols perché egli non rinunciava alla vita e pur avendo a disposizione una ricchezza di mezzi espressivi, meditava sovratutto sul testo del grande messaggio di Klee e in misura minore su quello di Kandinsky ciò che essenzialmente, in misura spirituale, era da intuire nella dialettica così ricca di contrasti, di tensioni e anche di negazioni violente è nel mondo contemporaneo. Serrando i tempi di Klee nelle severe, intense, continue strutturazioni di sottili linee e piani di colore di «Babel ’55» non chiudeva la porta ai «Demoni di Primavera»: li aveva già intuiti due anni prima e una luce non solo magicamente illusiva, ma di una spiritualità pungente si insinuava nel ritmo della composizione delle astratte strutturazioni fantastiche. L’artista, antenna sensibile che è chiave di ogni tempo aveva intuito che dei vagheggiati monumentali sogni di tempi antichissimi non rimanevano che i frammenti grandiosi di un Assurbanipal solo di memoria.
Allora era necessario che le intense strutturazioni plastiche nelle sculture di oggi dai piani serrati e ricuciti nelle loro ferite fossero il vivo senso reale, nella immagine fantastica, di antiche maschere impassibili sempre testimoni di un presente. Di un particolare aspetto del «presente» perché alcune vive germinazioni interiori sono pure a dispetto dei pessimisti testimonianze positive del presente. Con gli ultimi dipinti dell’artista come «Impeto a Letoianni ’63» o «Estro a Capo d’Orlando» si comunicano, nel segno dei piani continuamente convergenti ed in movimento del colore-luce, i caratteri non solo di una vivida fantasia, ma di una spirituale e ricca vitalità del tratto stesso che germina i segni ormai prossimi di un approfondimento essenzialmente interiore per questo nostro tempo troppo a lungo tormentato, sconvolto e dilaniato dalla misura dell’odio e di un egoismo che non ha limiti e non ha tregua, ma che si autodivora anche e si distrugge.
Parlando una volta con Giorgio Morandi di alcuni fenomeni dell’arte contemporanea, lì per lì mi sorprese un suo giudizio nettamente isolante su Corrado Cagli. Sembrava, alla prima, che un artista di forma tanto ardua, rigorosa, legata all’interno in una continua conseguenza con se stesso di cui era aspetto saliente la persistenza tematica, dovesse trovare, se non antitetico, distante un artista tipico invece per il suo perenne, febbrile e quasi ansioso spostamento, per la sua insaziabile fugacità.
Continuando il discorso capii la ragione del suo apprezzamento. La partenza era Picasso, per cui Morandi professava di solito un’ammirazione espressa, sintomaticamente e contrariamente alle sue schiettezze originali, in termini tiepidi e convenzionali, quasi come uno schermidore o un cacciatore che rende omaggio al rivale. Era la stessa cosa coi Carrocci e altri pittori del Seicento bolognese. A forza di dirgli che egli li continuava, era imbarazzato a rifiutare pubblicamente una discendenza pur tanto illegittima, ed io scherzavo volentieri sul suo disagio.
Finì che alla mostra dei Carrocci lo pungolai maliziosamente più volte a riconoscersi nei supposti predecessori, che sogguardava con evidente pazienza. E per liberarsi, Morandi s’accostò a un quadrone immenso, popolatissimo, isolò con le palme delle mani un quadratino di vago, sommario paesaggio lontano e assentendo energicamente con la faccia aggrottata, pronunziò in bolognese:
«No, guardi Ragghianti, questo lìè buono».
Su Cagli c’intendemmo rapidamente. In Picasso l’identificazione, di trasporto o d’intelligenza, gettava tutto l’artista verso l’oggetto della prensione, mutandolo sino alla moltiplicazione indefinita, all’intermittenza formale, alla diffrazione della personalità. In Cagli — che deve aver sentito come iniziazione ed avvio il canto leopardiano del pastore errante, sino a farsene una condizione costante d’ispirazione e di nostalgia — la situazione, nelle somiglianze apparenti, è diversa e opposta: natura come inesausti spettacoli e incentivi, storia come immenso possesso dalla magia alla cultura, ad ogni cultura, si adducono al fuoco denso e segreto di una forma che non muta il suo dominio di sintesi, comunque si declini.
Giusta quindi la reazione al giudizio di sconcertante « eclettismo », pur nella eccezionale fecondità inventiva, che ha posto il Russoli, a proposito della grande mostra milanese di Cagli parafrasando una famosa boutade di Picasso: io non cerco, trovo; e differenziando Cagli per la sua consapevolezza d’inesausta ricerca. Con una delle solite intuizioni a fondo Palazzeschi, parlando delle sue sculture, ha trovato forse le parole più giuste: « Avventura sì, ma in perfetta coscienza e di cui egli possiede in sé la misura precisa ».
Sia pure episodicamente e per cicli. Cagli ha una capacità di concentrazione pari solo alla sua capacità di espansione, che suscita continua sorpresa. Carrieri parla giustamente del suo « fanatismo » intellettuale: è l’effetto dell’intensità aggressiva irresistibile con cui gli erompe la sensibilità di vita o la scoperta di cultura, sino all’oltranza. Non ho alcuna paura a paragonare Cagli, malgrado le evidenti disparità di esperienza e di clima interno, al Mida D’Annunzio, che resta un grande poeta, perché anche in Cagli c’è il potere d’assorbire una prodigiosa quantità d’incentivi, stimoli, attenzioni, interessi, con un’avidità inesausta e sempre pronta, per riproiettarli in trasposizioni marcate da una costante coscienza di stile, che può raffinarsi in stilismo, ma esclude ogni caducità, approssimazione o concessione, è sempre fedele a un processo interno di singolare fantasia formale.
A una prima vista, opere e cicli possono dar l’impressione allo spettatore di trovarsi di fronte a una pluralità di microcosmi, ognuno esaurito, perfetto ma a sé stante. Progressivamente si avverte — e d’ordinario questo potrà verificarsi solo in presenza di una recapitolazione vasta come quella milanese — che s’è di fronte a una costellazione planetaria, dove polimorfismo e movimento non sono caos, ma un ordine e un ritmo. Dai neofiti, Orfei, disegni di guerra e di Lager ai tarocchi, carte, impronte, totem, partenze, sepolcri, scale cromatiche, ritmi cellulari, stanze e trompe-l’oeil, il caleidoscopio mobilissimo dell’immaginazione dalle più impensabili partenze acquista quel carattere d’identità nella novità, che rende sempre tanto riconoscibile l’opera di Cagli, anche quando lo slancio senza freno del pari prevarica e tende a sopraffare.
Ho spesso detto, e spero mostrato, che esistono artisti la cui lettura comprensiva non coincide col percorso cronologico, che si spiegano dal futuro piuttosto che dal passato, che invece di precedenti e conseguenti hanno una tensione gravitazionale, per continuare l’immagine agiscono per entropia. Cagli è uno di questi. Egli viaggia nel passato e nell’ignoto con una velocità di sensazione, ricordo, associazione, sintesi che non sono d’altri; il suo tempo è una sospensione in cui agiscono impulsi e trazioni complesse; l’opera puntuale si situa in un campo di interferenze e d’incroci, di previsioni e di ritorni, in una compresenza di memoria cosciente che salda il conosciuto con ogni imprevedibile o tuffo nell’inespresso. E così le crepitanti carte modellate, i pullulanti Arlecchini, i brulicanti estri cromatici degli ultimi anni aiutano a spiegare quanto d’improprio e di pur traumaticamente archeologico s’era visto in opere come la grande Battaglia di S. Martino del 1936.
Cagli, lo si vede ora bene, ha collocato nel nostro mondo, con le sue straordinarie eruzioni di fantasia, premonitrice di nuove origini e insieme pregna di cultura spinta in ogni direzione dello spazio e del tempo, una quantità d’incantesimi fulgenti, in un arabesco di movimento che sembra ben lontano dal perdere impeto ed ansia di nuove visioni.
Dagli anni Trenta sino, ai nostri giorni, Corrado Cagli ha profondamente influenzato l’arte italiana, con un lavoro pittorico e plastico che, rifiutando la “routine”, ha battuto le strade di un coraggioso sperimentalismo e di una rinnovata tradizione.
Intorno ai tredici anni provai un sentimento di avversione, generato dall’invidia, nei confronti di un ragazzo che aveva qualche anno meno di me. Si chiamava Corrado Cagli e non lo avevo mai visto: però lo detestavo.
Suo padre, per dirla in breve, era mio insegnante di matematica e frequentemente, in classe, sequestrava i disegni che tracciavo sul quaderno mentre atteggiavo il viso e lo sguardo a compunta attenzione verso il Professore che spiegava il teorema di Pitagora e che io non ascoltavo affatto. Il Professore mi sequestrava i pupazzi, ghignando e facendo viaggiare da un lato all’altro della bocca il mezzo toscano. Dopo avermi aspramente rimproverato, immancabilmente aggiungeva che oltretutto i miei pupazzi valevano nulla rispetto a quelli che sapeva fare suo figlio Corrado. A dieci anni, secondo suo padre, questo dannato Corrado era già un artista esperto delle tecniche pittoriche. Mi toccava sentirmelo dire anche fuori della classe, quando il professor Cagli mi chiamava concedendomi l’onore di accompagnarlo per un tratto di via Cavour. Benchè non capissi molto dei quadrati costruiti sull’ipotenusa e sui cateti, l’onore mi era concesso per la ragione pretestuosa che risultavo marchigiano come il professore; in realtà era per mortificare la mia presunzione di essere votato all’arte con l’esaltazione (fredda però, espressa con quel ghigno che terrorizzava le aule) delle qualità pittoriche del piccolo odioso Corrado.
Anni dopo, quando incominciai a frequentare le mostre e a scoraggiarmi circa le mie capacità, le vanterie paterne del professor Cagli diventarono attendibili, anzi comprovate. Difatti a diciassette anni Corrado aveva già dipinto (se ne parlava sui giornali) non già la solita mela sul piatto con l’azzurra ombra cezanniana ma addirittura vasti cicli pittorici, affreschi come quelli della palestra Giulio Giordani, che un gerarca poi volle fossero distrutti, come furono distrutti altri notevoli affreschi del giovane Cagli. Pochi anni dopo questi era autore discusso e ammirato di pitture murali per ville, per la Mostra dell’edilizia, per la Triennale milanese. Sui venti anni o poco più Cagli faceva gruppo a Roma con Capogrossi, con Cavalli, con Guglielmo Janni, con il più anziano Roberto Melli. Sarebbe meglio dire che dominava il gruppo dei tonalisti, mentre aveva commerci con quello della Scuola romana e con i novecentisti.
MURl AI PITTORI
Cagli era allora (lo è anche adesso) straordinariamente vivace, alacre, armato di un mestiere e di una cultura davvero insoliti. Dipingeva, discuteva, scriveva. Scriveva sulla rivista Quadrante, diretta da suo zio Bontempelli, lanciava l’appello: “Muri ai pittori”, affermava doversi ristabilire il rapporto con l’architettura che gli antichi maestri avevano istituito e che s’era perduto via via con il manierismo e il culturalismo architettonico, poi con la rettorica romanistica e con quella razionalistica che incominciavano a contendersi il campo.
La prima mostra importante di Cagli risale al 1933: alla Cometa, una galleria diretta dal poeta De Libero e che non si può fare a meno di nominare quando si fa la storia di quegli anni: una storia interrotta nel ’38, con il razzismo, con la guerra alle porte. Che cosa sia stato Cagli in quegli anni, quale parte abbia avuto preferisco sia detto con le parole di un altro artista importante, di un testimone non sospetto, data la diversità di esperienze artistiche che lo dividono da Cagli. Ha scritto Renato Guttuso: « Cagli svegliò i morti in quegli anni. Non ci furono giovani di qualche talento in Italia che, in qualche modo, non si unissero a lui: da Capogrossi ad Afro, a Purificato, a Leoncillo, a Mirko, a Ziveri, a De Libero, ad Antonello Trombadori, a Franchina, a Birolli, a Tomea, a me stesso… Cagli dipinse in quegli anni centinaia di metri di tele, fortemente contenutiste; rimise in ballo la mitologia, la storia ebraica, i romani; dipinse episodi della vita popolare romana come lo splendido affresco distrutto dai fascisti La corsa dei Barberi o come La notte di San Giovanni ed episodi della nostra storia nazionale, del nostro Risorgimento, come La Battaglia di San Martino; egli saccheggiò freneticamente le tavole della nostra tradizione da Piero a Uccello a Castagno con una genialità e un sentimento eroico della pittura che non solo lo differenziava ma in piena consapevolezza lo opponeva al culturalismo retorico e al falso realismo del Novecento fascista ».
Per tornare alla precocità di Cagli; debbo aggiornare il mio ricordo scolastico alla dichiarazione fattami nei giorni scorsi dal pittore stesso. Fattami con la sua voce bassa e pacata, con l’accento immune da inflessioni dialettali che è privilegio – secondo Cagli – di noi veri italiani: come dire marchigiani, umbri, altolaziali, sabini e magari, con qualche riserva, toscani; noi dell’area umbro-etrusca. Mi ha detto dunque che il suo esordio artistico va collocato prima dei dieci anni: a quattro anni il Corriere dei Piccoli gli pubblicò una intera pagina a colori. La mia invidia si ridesta e mi suggerisce un pensiero maligno: grazie tante, sua madre si firmava Fiducia. A quei tempi Fiducia era una notissima scrittrice per l’infanzia, e pittrice per giunta.
* * *
Un’impresa difficile, anzi disperante, sarebbe quella di voler separare e distinguere nell’opera più che trentennale di Cagli le varie epoche, o maniere o tendenze, e sarebbe meglio dire tentazioni, con quel tanto di demoniaco che il termine comporta. Come in Picasso, lo sperimentalismo di Cagli, il suo prodigioso dominio sulle materie e sulle tecniche (la tempera, l’olio, l’affresco, l’encausto, ma anche l’aerografo, anche le famose Carte gualcite, stirate e sublimate dal colore, anche il monotipo a olio, anche gli smalti e i pastelli grassi e gli inchiostri, anche il cartone modellato, anche i bronzi e la tela, il compensato tamburato, la faesite, la carta di riso…) e le sue inquiete motivazioni culturali possono far sembrare contemporanee le opere più lontane, o distanziare gruppi contigui. In realtà nella volontà di Cagli di dar fondo, ogni volta, a un nuovo mezzo o a un nuovo risultato espressivo, si verifica sempre una costante stilistica e morale; sia nei quadri di impianto realistico dove la figura umana, pur continuamente variata da un’invenzione stilizzatrice, appare sovrana e potente, sia nelle opere astratte. Queste ultime possono essere elaboratissime composizioni o ricomposizioni di elementi geometrici matematici o di elementi naturali; possono sfruttare la casualità materiale o piegare le materie alle più impensate figurazioni. Cagli può ritornare sui propri temi e rinnovarli totalmente. Il suo eclettismo (un termine che non gli piacerà), il suo meditato libertinaggio pittorico e plastico sono la garanzia che egli chiede al proprio ingegno per non cadere nella routine.
Quella routine che egli rimprovera a quei pittori che vivono di rendita una intera vita su un modulo o su uno schema trovato una volta. Senza far nomi, posso dire che la presenza su un tavolo del suo studio del catalogo della Biennale ha provocato, fra tante altre, questa confidenza di Cagli. Non c’è lo scandalo, non c’è, qui, come si vuole, il documento della fine dell’arte, o della sua paurosa decadenza. Non c’è crisi artistica. C’è una spaventosa crisi morale. Come dire che la crisi non riguarda i risultati aberranti, ma riguarda gli uomini, gli artisti, la loro cattiva coscienza, la loro pigrizia e faciloneria. E riguarda coloro che incoraggiano, che garantiscono e valorizzano le false novità per paura di non essere all’altezza dei tempi.
I RICHIAMI TEOSOFICI
Nel giudizio di Cagli si ritrova quella severità che è abituato a mantenere anche con se stesso, e che viene anche dalla sua frequentazione di scienziati e di tecnici. Non c’è un lavoro suo che non sia compiuto, portato avanti fino al limite. E’ difficile, anche per chi lo segue da anni, definire in poco spazio la portata dell’opera.
Anche perchè Cagli, come è pronto alle sollecitazioni sociali e alle più coraggiose prese di posizioni, altrettanto è allettato da richiami misteriosofici, iniziatici e mitologici. Cagli ha frugato anche nel mondo delle irrealtà metafisiche e nel mondo delle irrealtà matematiche e dimensionali. La sua arma più acuminata è la straordinaria abilità manuale al servizio di una intelligenza continuamente eccitata, mantenuta a bollore. La contropartita può essere una consapevolezza spinta fino alla superbia. Ma Cagli è la prova vivente che il mestiere, cioè la tecnica, e l’ingegno, cioè la capacità di elaborazioni culturali, sono buoni conduttori di poesia. Il rovescio (oppure la stessa cosa) dell’invocazione di Cardarelli: « Arrivare alla grammatica per forza di ispirazione ».
Ho detto che Cagli è pronto alle più coraggiose prese di posizione. Quando i gerarchi fascisti fecero cancellare o distruggere le sue opere, quando lo perseguitarono in nome delle leggi razziali, Cagli non si accontentò di emigrare, ma volle combattere contro il fascismo.
Andò in Francia e di lì in America sfuggendo alla polizia francese, messa sull’avviso da quella fascista, servendosi di stratagemmi come quello semplicissimo di denunciarsi come Cagli Corrado. La polizia francese scrutò gli elenchi, non trovò un cognome Corrado, dette via libera all’imbarco del pittore verso gli Stati Uniti, dove era già conosciuto, dove aveva esposto con successo, dove abitava il matematico Zariski, suo cognato. Quando gli USA entrarono in guerra Cagli potè arruolarsi, sbarcare in Francia, combattere cinque campagne, entrare in Germania, arrivare fino a Lipsia: quattro anni di vita militare e di guerra. Lungo la strada del ritorno, la visita ai famigerati Lager. Una quantità di disegni impressionanti, che ammirammo quando tornò in Italia nel ’45, e riprese la sua attività di artista. Quei disegni di Buchenwald, Bontempelli li definì « prodigiosi e crudeli. In essi la forma umana era stata sopraffatta così da perdere i suoi più normali attributi, per rifugiarsi nella sola cifra della disperazione fisica ».
Ma Cagli non parla volentieri della sua esperienza di guerra. Mi sembra che alla evocazione egli preferisca la profezia; la ripetizione o la imitazione di ciò che ha già fatto non lo tentano: ma lo interessa ogni giorno un’avventura nuova, un nuovo sperimentare e procedere nella sterminata foresta delle forme, sempre guidato dalla attenzione, dalla perizia e dalla responsabilità. Sono stati pubblicati su Cagli saggi assai ampi e acuti, volumi ponderosi, ma nessuno oggi potrebbe fare il punto definitivo sulla sua opera, che è sempre work in progress.
Per Cagli la pittura è tentazione, è anche preghiera e peccato, cioè è religiosità turbata; remoto bisogno di ritornare — rappresentandoli e allegorizzandoli — ai dolori, ai prodigi, alle crudeltà e alle follie degli uomini: alla loro storia dal Diluvio a Hiroscima.
Resterebbe da dire sulle tappe più importanti del suo lavoro di questi ultimi vent’anni, cioè dal suo aderire, nel ’47, al Fronte Nuovo delle Arti; ma lo spazio che mi resta consentirebbe solo un accenno generico e delle date.
Meglio rimandare il lettore al ricordo delle grandi mostre di Cagli, come la sala alla Biennale veneziana del ’64 e quella recente di Milano, o avvertirlo che tra poche settimane si aprirà a palazzo Strozzi in Firenze, a cura di C .. L. Ragghianti, una grande mostra antologica.
Da qualche anno Cagli è anche Direttore Artistico della Arazzeria di Asti, creata dall’appassionato Ugo Scassa: una delle più alte espressioni dell’Artigianato italiano. Asti è ormai, nel campo dell’arte, e dell’arazzo moderno in particolare, un riferimento sicuro. Gli arazzi tessuti nella Certosa di Asti da un gruppo di ragazze lavoranti istruite da Scassa e ormai animate dallo spirito creativo di Cagli non sono copie o traduzione di opere d’arte contemporanea. Ogni arazzo è un unicum dove è possibile rilevare nella inverosimile perfezione esecutiva ogni tocco, ogni vibrazione del quadro originale, con in più la bellezza materica. E’ giusto parlare di Asti riferendosi a Cagli, perchè nella conversazione con lui il nome della città piemontese affiora facilmente. Dico conversazione: qualche volta può essere una garbata e dotta lezione, come sanno i giovani che hanno lavorato con lui, qualche volta uno scambio di argomenti affrontato col massimo impegno a qualsiasi livello. Se il tono è polemico occorre fare attenzione, Cagli è armato di frecce acuminate, qualcuna ha la punta intinta nei veleni dell’ironia e della satira. Sul suo volto teso, serio, intento e vagamente “cattivo”, c’è sempre qualche cosa che ride o irride: non so dire dove risiede questo qualche cosa. Negli occhi, nella bocca?
Ho conosciuto Cagli molto presto, quando era ancora un ragazzetto, e ne spiego subito il perché: perché Bontempelli, l’indimenticabile scrittore, astratto e arguto, tutto sottile perizia nel rigore e nella levità della sua prosa, era zio di Cagli e mio caro amico.
Cagli era allora d’aspetto quasi com’è oggi, gli anni passano certo anche per lui, ma lasciandogli quasi invisibile la traccia dei loro guasti.
Somiglia a Voltaire, come uno ha detto? Aveva già lo sguardo, pensoso, pieno di memorie, introspettivo all’eccesso come uno dalla già lunga esperienza? A vent’anni era com’è oggi, antico e giovanissimo, così nel fisico come nell’animo. Ci sorprende di continuo, di continuo si rinnova, e, nella sua arte, per esempio, sempre rimane quello che sino dal primo momento s’era proposto d’essere, un precursore che, per riconoscersi, per capirsi, fruga nella tradizione, in qualsiasi tradizione, la nostra, quella d’altri popoli, quella di gente barbara o civile, quella della preistoria.
L’ho visto sempre tutto nodi, nodoso il viso, nodose le mani, un po’ curvo perché flessibile di corporatura e scattante come un giunco.
Parla a voce sommessa, come borbottando d’essere condannato a dipanare le intuizioni e le riflessioni sul suo lavoro da proseguire, che sono tante, troppe, che non cessano di accavallarsi e d’intrecciarsi nella sua mente, e non si muove quasi, nemmeno muove le mani, mentre nel modo che s’è detto, e non parla mai in diverso modo, parla a uno.
Le prime pitture di Cagli sono del ‘27. Aveva diciassette anni. La prima che mi sembri molto singolare, Le Formiche, del 1932, olio su tela, raffigura un ragazzo, con le gambe allungate, il busto drizzato, la testa poggiata sulla mano, nudo, in una solitudine, mentre osserva il viavai sul terreno di formiche. Dietro, s’alza uno scoglio che fa, con la spalla alzata del ragazzo, simmetria, rendendo precipitoso un orizzonte di mare. Credo che il primo Cagli, il primo sbalorditivo Cagli – ma quando cesserà di sbalordire? – sia già qui.
Piero della Francesca, Paolo Uccello, chi avrebbe osato sceglierseli a maestri? Di più, chi li avrebbe eletti propri rivali, traendo dal loro insegnamento l’attualità vivissima della propria pittura?
Cagli ha la temerarietà d’intraprendere fatiche d’Ercole. Ecco, gli si sono spianati i nodi, non borbotta più accigliato, accompagnando il meditato sillabare da quel suo sorrisetto che non s’interrompe mai di girottolare dal naso alla bocca, quando egli riposa, ecco gestisce finalmente, ha gesti impetuosi, è un uomo d’un’energia che non si era mai vista, ecco affronta l’affresco come se non fosse nulla, quell’uomo tutto nervi e che pare a starci insieme tutto calma.
Cagli può ricorrere, ha fatto ricorso, a tutte le tecniche, e ne inventa, anche in questo trova più di chiunque, e nel colore è difficile stargli a paragone.
Per i temi, mentre altri ricerca nel riprodurre, certo con somma ispirazione e arte, la polvere sulle bottiglie, Cagli si cimenta nella Caccia a fissare la visionaria corsa d’un giovane militare shiita lanciato all’inseguimento, stupendamente agitato a cavallo, vestito di squame che ne fanno trapelare il nudo, in mezzo a meraviglie d’azzurro, di bianco, di giallo, di rosso; d’acqua celeste. È il periodo, in quanto a tecnica, della tempera encaustica su tavola.
La Corsa dei Barberi è stata dipinta a Castel dei Cesari, alle pareti, su marmorino romano a tempera all’uovo …
Nel mio discorso mi limiterò alla descrizione di alcune opere per indicare le varie tappe sino ad oggi percorse dall’artista. Mi lusingo che basteranno a dare qualche idea di quanto sia pittore grande Cagli.
La Battaglia di San Martino, un capolavoro, nasce nell’aria d’un paese lombardo. Il frastaglio ricciuto delle foglie di felce che si riflette e si smorza nell’acqua tenue, il largo distendersi, sotto una listina di cielo un pochino cupo, usato nel paesaggio, nella parte superiore del dipinto, e giù il caleidoscopico fratturarsi dei colori, azzurri, rossi, marroni, gialli, nei quali si manifesta in mezzo al verde, lo scontro dei guerrieri a cavallo: il dipinto è tutto qui.
Ma uno come potrebbe fare a stancarsi di guardarlo?
Per la Battaglia di San Martino i fondi glieli aveva suggeriti Cavallasca, dipingendone un anno prima, nel 1935, a varie riprese, il Paesaggio.
Saltiamo qualche anno, saltiamo tante opere degne d’essere guardate e studiate e da tenere sempre presenti nell’occhio, nel sentimento e nella fantasia; ma il mio discorso non può varcare i limiti che gli sono stati imposti.
Siamo negli anni 1940-45, Cagli si è arruolato nell’esercito americano, presta servizio di guerra in artiglieria nel Nord-Europa fino all’arrivo a Lipsia, dove nel 1945 avviene l’incontro con gli Americani dei Russi.
Di questo periodo, esiste uno strepitoso collage, che appartiene a Bruno Zevi. È stato dipinto nel 1940, poco prima dell’arruolamento. Spiragli d’azzurro, di azzurro fondo marino e di porpora e di rosso violaceo e di nero e di bianco e di strisce di giornale, ogni moto conservandosi verticale salvo qualche memento d’azzurro o di nubi, orizzontali in cima.
Il 1940 è un anno fertile, produce un disegno in matita copiativa, Cecilia, che preannunzia i grovigli labirintici, lo smarrimento nell’imo del segreto di sé.
Del 1945 è quel Ragazzo nel lager, monotipo a olio su carta intelata, l’unico documento ch’io conosca, di forza veramente tragica che, denunziando la nefandezza nazista, raggiunga, per qualità espressiva, senza alcuna rettorica, l’altezza sublime della poesia. Con estrema emozione pudica sono rintracciati i lineamenti del bambino martire da una mano sorvegliata, quasi trattenuta, dal timore di aggiungere altro male a quello inflittogli dai carnefici. Bisognerebbe anche parlare dei Disegni di Buchenwald, disegni tracciati con penna di feltro e inchiostro. Sono altrettanto tragici, ma forse la poesia non vi raggiunge quell’acuminatezza espressiva e desolante per sempre del Ragazzo nel lager.
Di questo periodo, è da segnalarsi almeno anche Madre e bambino a Saint Lo, olio su carta del 1944. È d’uno sgomento che colma la strada vuota per farla rintronare solo del rumore dei passi di quei due poverini.
Dal 1946 al 1948 Cagli si ferma a New York. È tutt’altro che un suo periodo trascurabile. È anche il periodo, nel 1946 e 1947, durante il quale collabora con Balanchine al Ballet-Society.
Il 1949 dà principio a una fase dell’arte di Cagli che è, nel senso dell’assoluta ricerca, la principale. Si tratta dei Disegni di quarta dimensione e dei Motivi cellulari. Il punto di suggerimento risiede forse nel letterismo di Hartung, o in un informale che, specie per le Impronte del 1949-50, potrebbe farsi risalire in qualche modo a Fautrier. Si tratta probabilmente di esperimenti che non hanno bisogno ci si chieda da chi provengano, tanto hanno avuto subito una così speciale loro qualità d’eloquio e una folgorante loro particolarissima funzione. Ma chi voglia rendersi conto degli sviluppi del nostro infaticabile operaio e della ripartizione che farà in seguito dell’attività del colore nei dipinti futuri, compresi quelli recentissimi, dovrà avvicinare, per una fusione di sintesi, alle sopraddette sue nuove ricerche che chiama Disegni, opere come Il Bagatto del 1947, tempera a olio su carta intelata, I Tarocchi come, ad esempio, L’Imperatore del 1948, tempera intelata, La Ruota della Fortuna del 1948, olio su tempera su carta intelata. Anche La Ruota della Fortuna del 1946, tempera encaustica su masonite, ha importanza, nel caso in esame, e rispetto agli altri dipinti ora citati, e ne diventa una sorta di capostipite.
Sono i Disegni di quarta dimensione un modo di approfondire con maggiore attenzione analitica la disposizione degli elementi sul piano pittorico che era stata, come poco fa si diceva, conquista dei Tarocchi, preannunziata dalla prima Ruota della Fortuna.
Qui s’entra in un discorso molto difficile, e Cagli vorrà permettermi di citarlo: « In modo elementare, quanto appare cubico in uno spazio tridimensionale apparirà in forma di ipercubo in uno spazio di quarta dimensione.
Prendendo coscienza dei significati spaziali antitetici di questi due solidi, potremmo suggerirli come metri di due diversi ordini pittorici: il cubo come legge e misura di tutta la pittura di tre dimensioni e l’ipercubo come legge e misura della pittura di quattro dimensioni.
«Naturalmente come il pittore adopera due dimensioni per poterne rappresentare una terza, il Donchian ha dovuto ricorrere alle tre dimensioni per rappresentarne una quarta. L’intera serie dei solidi di quarta dimensione (fatta eccezione per la sfera e il cilindro) nella sua casa in Hartford, propongono all’occhio d’un pittore un’ottica nuova e un principio di compenetrazione degli spazi per la prima volta manifesto.
«Ma il pittore che si arricchisce di questi nuovi principi proiettivi e intende quindi portarli nel suo campo di attività come nuove leggi e nuove funzioni, si troverà poi di fronte al fatto di non poter disegnare in quarta dimensione se non adoperando il filo di ferro anziché il tratto e invadendo lo spazio tridimensionale anziché il foglio.
«Sulle due dimensioni della pagina il disegno di quarta dimensione assume la forza allusiva, non rappresentativa, e mi preoccupa il sospetto che non ci si possa avventurare nei campi poco esplorati delle dimensioni n senza dover rinunziare al telaio e alla tela. Appunto perché al nostro telaio bidimensionale dovremmo preferire un telaio diversamente concepito, come un piano continuo sì, ma in tre dimensioni.
«Io, nei limiti della mia ricerca, ho fatto esperimento tentando di adoperare l’anello di Moebus che, ottenuto da un rettangolo di proporzione l : 5 tra i lati o l : 6, offre una forma pura e una superficie continua, non meno suggestiva del cerchio, non meno impressionante della sfera».
Così nasce l’applicazione nell’arte del disegno e in pittura dei risultati d’una proiettiva di quarta dimensione che formeranno quell’intersecazione di canaletti e di circoscritti laghini, in un rincorrersi aggrovigliato di spazi dedalei come derivassero l’uno dall’altro, si compenetrassero l’uno nell’altro, si attorcigliassero l’uno attratto dall’altro e finissero coll’offrire una nitida figura grafica come sono, per esempio, Il fringuello del 1949, penna e inchiostro su bristol, La gabbia del 1949, penna e inchiostro su bristol.
I Motivi cellulari sono una semplificazione, diciamo meglio una fragmentazione a un certo punto d’una gabbia centrale di quarta dimensione, per imprimere al segmento-segno ricorrendo al colore un arco di libera corsa. Pensate a una vetrata di cattedrale gotica che si volti, e si stravolti e si rivolti, impazzita. Ritengo che con questi esperimenti, Cagli abbia fatto compiere, anche per le migliori opere ch’egli eseguirà dopo e sino ad oggi, un passo avanti da gigante all’arte contemporanea.
Vorrei, prima di affrontare le opere eseguite in Sicilia e che rappresentano la fatica e il prodigio più recenti di Cagli, segnalare la Rotta del Po del 1951, monotipo a olio su carta, che è un ritorno felicissimo al figurativo. La disperazione delle teste, di bovi che stanno, emergenti dal subbuglio delle acque, per annegare, con quegli occhi loro imploranti invano, reca un dolore insopportabile a chi guarda.
Anadiomai del 1961, penna e inchiostro su bristol, è come un correre di fiamme a modo di masse di capelli che l’una nell’altra vadano a intrecciarsi, fino ad arrivare in cima, tra ciuffi di fiamme o capelli, all’ovale dove si fissano due macchioline tonde d’occhi. A questo punto, i ciuffi rappresentano una testa di gatto su un corpo di gatto? O si tratta di un barboncino. Cagli mi dice che si tratta d’una persona.
Adamo del 1962, penna e inchiostro su carta riso. Si tratta di segni concentrici che partono dal midollo dell’albero, e dell’albero indicano il numero degli anni. Alla fine, in cima, gli anni delineano come un viso di persona umana che si moltiplica. È il peccato nel Paradiso terrestre? È il castigo dopo la cacciata dall’Eden, che consisterà nell’unica possibilità di vincere la morte nel trascorrere dei secoli, moltiplicando le generazioni?
Infine, quel disegno che si chiama Il sonno e che è del 1962, penna e inchiostro su carta riso. Il sonno nasce da un punto e finisce a un punto. Non ho a disposizione Arianna per insegnarmi a inoltrarmi in tanto serpeggiare filamentoso di canali e uscirne, e ci rinuncio, ma questo è proprio il sonno, senza via d’entrata, senza via d’uscita, se non nel sogno, che sempre si porrà come segreto indecifrabile.
Credo che ci siamo avviati a capire Cagli, il figurativo Cagli e l’astratto Cagli. Spero che riuscirò ad avviarmi e ad avviarvi insieme con me a capire l’ultimo Cagli, quello dove le due tendenze fondendosi e assommando l’intero travaglio espressivo di tutta una vita, presentano un impeto nuovo, una elementarizzazione per fomentare meglio di prima quell’esplosione lirica e tragica dalla quale assumono vita le forme. Il Fauno nella forza degli anni ha preso lo zufolo, lo porta alle labbra, è sul colle seduto, ascolta l’aria, con il soffio suo più suo la imita sullo zufolo, quell’aria insuperabilmente melodiosa, ora che, ardendola il sole, essa è già carne di luce del declinante meriggio. Il Fauno semita, italico, greco, canta in Sicilia, è finalmente approdato alla sua vera terra, il Fauno, già saggio, Cagli che ha già fatto tesoro di tutto, che non ignora nessun pericolo corso e vinto dall’arte in ogni secolo, in ogni dove, che sa già come affrontare e vincerlo, rivestito come egli è della corazza magica dei millenni umani, l’incognito pericolo di questi giorni nostri della stratosfera.
Ora, per farne agli altri dono come è usanza dei poeti, il Fauno conoscerà il dono di sintesi, ne entrerà in possesso, di quel dono supremo dell’espressione poetica che non sa svelarsi se non per frammenti.
L’oggetto di quarta dimensione che la soluzione d’un calcolo elettronico ha fatto intuire all’algebro affinché Cagli se ne potesse ispirare e lo potesse in suoi dipinti erigere di filo di ferro o che ne so di quale altra materia, dura e affinata; i bussolotti detti motivi cellulari, in cataste barcollanti sotto apparenze di torri e di castelli; la cabala; la ragione sorpresa nella demenza del ragionare; i tarocchi, montagne di carte alle quali il vento sibillino ha impresso volo e dispersione dalla Ruota della Fortuna; gli episodi autobiografici; la realtà orribile di fatti feroci in una cronaca recente, esposti e denunziati mostrando con crudo realismo e somma pietà inermi vittime; pratica esoterica da grande iniziato; peccaminoso sillogizzare impeccabile; inferno e paradiso; tortura e felicità e mistero, e inesausta sete di conoscenza, e tutto; la matassa sgrovigliata del filo d’Arianna, e tutto; tutto è crollato, si è ammucchiato, si è imbrogliato e appiattito, e alla fine ha pure dovuto decidersi e rassegnarsi a incasellarsi, a carcerarsi; e tutto, nella luce finale del meriggiare di Sicilia, si è carcerato e incasellato per risorgere libero a brani , al balenare di trionfali colori, da quei testamenti di rovina dei quali la memoria è custodia. Non è altro che testimonianza di rovine, la memoria, sebbene la poesia non disponga, nel farsi feconda di profezie, d’altro seme.
In Sicilia Cagli ha scoperto come poteva, aprendosi altre strade, riassumere in sintesi stupefacente, quarant’anni di ricerca espressiva faticosa e arditissima.
* * *
Le Siciliane sono un gruppo di opere dipinte dal 1961 al 1965, dove il colore si fa forsennato quantunque ricorra a un metro segreto di mitica saggezza.
Balena la luce, l’occhio prismatico del fauno la ha subito ripartita in scala cromatica e ci giuoca: rosso, giallo oltremare, bianco, i loro incroci.
Seduzione di luce spietata, o come agnellina, mite. Luce di Sicilia.
• A ERASMO. Ora predomina un colore di sangue in viva carne pettinata a sangue. Porge un cuore, in pietra filosofale di questi tempi nucleari sfaccettata dalle sue multiple temerarie dimensioni. Circuiscono il dipinto e l’attorniano ragnatele. Se esse all’interno avanzano, si convertono in nidi, subito risale su una nassa, messa in fuga dai denti del pettine
• TOTEM E FALÒ. Una febbre contagiosa; una febbrilità di dentro, soffocata. Focolai sono al centro, due, a lato, uno. Ardore famelico che ardore nutre. Personaggi instancabili rincorrono il totem. È elce, indovini. Coma o vanghe? Avviene tra piani d’isolamento. Rigature o sponde?
• CON AMORE. Prevalenti colori di fosforescenza luciferina. Balza su, tondo un tavolo. Lo reggono strisce longitudinali di risoluti colori. In mezzo al tavolo, un pomo si offre, e dai tempi dell’Eden altro non è che un cuore. La prepotenza della luce diviene tale che riduce tutto a nulla per non essere più altro se non la furia rossa della luce.
• MEMORIE DI CASTELMOLA. Insegna araldica sarà? Sono lingue forse lance, saranno fiamme, chele attanaglianti, oppure gli zoccoli sono del fauno che fa capolino dai volumi roteanti?
• LARVE A MAZZARÒ. Sentimento di liberazione, quantunque di sé facciano troppa mostra le vestimenta araldiche: cimiero, celata, barbuta, cordigli. Se non fosse quel giallo da girasole, somiglierebbe a Con amore.
• BATU BATU. Tatuaggio. Dell’eroico Kikuyu, si narra, ucciso dagli Inglesi. Quando l’ago punge al cuore l’immagine, offuscamento che dà i brividi.
• J.B.K. Un militare si celebra degli Stati Uniti, morto in guerra. Discorso cifrato. Da lettere e numeri risuonanze cromatiche continue in continuo alternarsi.
I Labirinti sono le opere di Cagli più recenti, dipinti dal 1966 ad oggi. Non ancora chiamate per nome. Il battesimo di Palermo imporrà a ciascuna il suo.
• Una rosa? Un rosa? Predomina il fiore? Vegetazione subacquea di torrido mare? Di lato e negli interstizi, su, l’azzurro cobalto di farfalle voletta; sotto, un ramarro, evoca braccia, gambe, secco intrico di rami, da un gorgo rasenta il fiore assiepato.
• Altrove, occhi orbati. Smorzature dagli occhi altrui li aliena. Occhi volti in dentro, contro i malocchi. Tradizione apotropaica dal tempo dei tempi, li affigge alle prue.
• Ex voto; icona da anacoreti venerata in cima a ripida montagna; ora desertica, scocca quando le pare, dal1’eterno. In alto e in basso dove si scrutano, opposti, due angoli, sosta la vertigine dello spazio. Gita, perdizione cromatica.
• Giostre, altre attrazioni, altri divertimenti, molte avventure promesse, smarrimento d’un ragazzo. Con le stesse immagini, nel medesimo tempo, si suggeriscono geroglifici, e lettere, segni, simboli, comunicazioni di un alfabeto estraneo, perso. Scacchiera dell’ocra d’oro, del viola, di quei bianchi che mettono gli altri vani cromatici a registro.
• Il Capocomico. Quanto inventa, è tutto qui. Insorge la testa del serpente dal basso, demone contemporaneamente di primavera, e Arlecchino, con dietro alla maschera, occhi fissi. Ricorre tutto in cadenza ionica, a chiocciole, a cernecchi. Tutti i cobalti s’intrecciano, serpeggiano, inseguiti, affiancati, a gara dal giallo di Napoli, dal rosso di cadmio, dal verde smeraldo, da altri colori.
• Gemello del Labirinto nel luna-park. Reminiscenza di carnevale peruviano, subito invece, di tripudio affricano e, subito di nuovo mutando, di baldoria di medioevo senese.
• Mascherone totemico spicca al centro? O il Minotauro spasimando d’amore? Sarà approdo d’Argonauti? Comanda il colore l’ics rosso, rosso di cadmio. Dai loculi degli occhi fa trovare fuori, campo all’immagine per dilatarsi. La testa, sotto e sopra l’ics, impone, per salti cromatici, la presenza del salire felpato d’un succedersi d’angoli.
Perdono per quest’ultima parte del mio discorso. Mi sono ostinato in descrizioni minute, persino sono stato pedante. Era utile, ne avrei fatto a meno volentieri altrimenti. Ciascuno dei dipinti che a Cagli ha ispirato la Sicilia, è un alveare che in ogni suo favo contiene, e ne fornisce, un diverso miele. Le api scelgono i fiori da cui suggere il nettare e non si curano di lontananze, non le temono, e, per analogia, fiore non esiste della terra e delle ere che non si possa invocare, gustandone l’essenza, per lodare questo paese del fuoco, questo paese dell’aurora più rossa, dei tramonti più rossi. E come potremmo dimenticare che viviamo in un secolo durante il quale, in moltitudini mai prima adunate in tanto numero, l’essere umano è stato condotto al macello più, infinitamente più che in qualsiasi altro momento della storia? Secolo di tramonto e di aurora, secolo mattutino e serale, e secolo di sangue, di sangue a torrenti, di un mare di sangue.
Il giallo dello zolfo e il rosso del sangue, il rosso dell’aurora e quello del tramonto, il giallo risplendente e il rosso incendiario non escludono che esista anche il rosso d’amore. E non è gialla la parte più ardente e più arsa della fiamma? Cagli, andando dal totem al falò, ha compiuto per conseguire la carta del privilegio d’amore verso la Sicilia, un pellegrinaggio favoloso nel sacro e nel profano. Vetusta è la Sicilia. Un arcaico, un paese antichissimo, una terra che l’arte della parola insegna dai primordi del balbettare umano, e ha proseguito, e non s’è mai arresa, coraggiosa e ambiziosa sino al punto di giungere a promuovere la propria parlata a lingua, quella lingua nostra che diverrà il più insigne idioma di poesia.
Quelle apparizioni inserite nei favi, etichette tracciate con tatto tanto delicato, come da zampe villose di api, illustrano dunque l’età infinita della Sicilia. Siano loro rese grazie.
Mi correrebbe ora l’obbligo di parlare di tecnica, meglio che nei brevi miei cenni, qui e là, del mio discorso.
Cagli non cessa d’inventarne, di tecniche, ne ha inventato mille varietà. Ogni problema espressivo esige, se uno è davvero un audace, una tecnica che lo risolva in tutta la sua verità sacra e profana. Ma la tecnica è problema individuale dell’artista, dei risultati espressivi ottenuti in seguito al rinnovamento tecnico, solo i risultati sono problemi universali del pubblico. Non può avere altro problema il pubblico, se non quello di farsi possessore di possibilità d’ammirare, in un’opera, la poesia. Per questo, gli è necessario, prima di tutto, di trascurare, e di dimenticare se in qualche modo lo sapesse, le soluzioni tecniche mediante le quali l’artista è arrivato a queste o a quelle parole di poesia.
Caro Cagli, ho elaborato con te questo scritto nel tuo studio, in via Fonte del Fauno. Eri predestinato ad essere un leggendario Fauno. Da quelle parti, da quanti mai anni abiti? Sono sempre, da tanti anni, venuto a trovarti da quelle parti, le più suggestive di Roma. Vi ho abitato tanti anni anch’io.
Caro Cagli, sono contento di questo incontro che ha offerto alla nostra lunga amicizia una solenne occasione di solenne dichiarazione. Sono contento che avvenga in Palermo, nel fuoco, nella luce strepitosa, in mezzo alla vivente verità senza sosta irrompente dal glorioso segreto di Sicilia.
Grottaferrata, 28 febbraio 1967.
Secondo Enrico Crispolti (nella presentazione del bel volume dell’Accademia Editrice: Corrado Cagli, Mutazioni modulari e loro variazioni cromatiche) la nostra critica si è sempre trovata in difficoltà ogni volta che ha preteso dare una definizione dell’opera di Cagli. I motivi di questa difficoltà e di questo disagio sarebbero due: primo “il carattere di asensibilismo, di rigorose volontà di controllo concettuale che presiede ed interamente conchiude il processo formativo di Cagli, per il quale l’intervento figurale è leonardescamente ‘discorso mentale’; secondo l’inesauribilità e varietà della sua facoltà immaginativa, cioè il ricambio continuo… dei modi del suo processo formativo”. Per Crispolti l’asensibilismo è mantenersi a debita distanza dalla “grande ragione dell’affabulatorio commercio sensibile con la natura e le cose”; in “quella grande regione, insomma, l’intervento figurale è piuttosto posto nei termini, se così posso dire, di ‘proposizione sensibile’, che non appunto di ‘discorso mentale’, essenziale invece per Cagli”.
Siccome non ci è possibile seguire punto per punto il discorso critico di Crispolti – fitto come al solito, di straordinari stimoli che ampliano il panorama e l’ arricchiscono – merita di soffermarsi sul significato di questa espressione, “discorso mentale”, che ci sembra racchiudere il segreto stesso dell’arte di Cagli. A parte i riferimenti e le suggestioni di un saggio in cui si vuole dar conto non solo dei risultati ma anche delle pregiudiziali di un’arte come questa così disponibile alla ricerca, resta un fatto incontrovertibile: Cagli è uno di quegli artisti, uno di quei maestri, che stanno a sè, che difficilmente fanno scuola proprio perchè la loro arte si nutre di elementi intellettivi, che sono i più irripetibili. Gli eventuali
discepoli possono compiere un’azione “ripetitiva” cioè diventare degli epigoni, ma non riusciranno mai a portarla avanti.
Anche da questo dipende la “solitudine” di Cagli, il suo splendido isolamento, il suo solipsismo inimitabile che la critica italiana – è un’altra osservazione di Crispolti – non ha saputo o potuto mai affrontare. Corrado Cagli è un demiurgo, un creatore di mondi in cui le immagini si formano per accumulazioni successive, in una proliferazione incessantete, cellulare e questi “mondi” possono esaurirsi in un cartone oppure subire mutazioni senza tregua, ma mai tornare su se stessi. Questa ci sembra la dimostrazione più probante della loro origine “mentale”.
Nel giro di trentacinque anni, da quando poco più che ventenne scriveva: “la fantasia rifugge gli uomini che vivono alla giornata”, la pittura ha subito un corso altalenante e le avventure sono state molteplici, facendo e distruggendo di continuo scuole e correnti; ma Cagli non si è lasciato mai sorprendere dalle mode inusitate nè dalle iperboli più affascinanti: ha proceduto nel suo viaggio e l’ha potuto fare perchè ha sempre posseduto una forte carica morale e un ancoraggio profondo. La sua vicinanza costante a poeti di varia origine ed estrazione, poi, lo ha reso sempre informato ma non l’ha irretito. Colto come pochi pittori lo sono, non è mai stato un pittore “letterario”.
Dai miti alle favolosità, non ha sdegnato le suggestioni della poesia, ma ha sempre tradotto la poesia in valore squisitamente plastico. “Una flora selvatica, carnosa” – ha scritto Franco Russoli – “animata di presenze inquietanti, e insieme stupendamente modesta, che diviene emblema di un paese incorrotto nella sua verginità naturale, eppur sede da tempo immemorabile di misteri prodigi. Cagli ha ricrealo l’immagine, e la sua forza di emanazione vitale, con l’uso dei segni magici, rituali, trasformatisi nelle sigle della condizione decorativa popolare. Ma nello stesso tempo, ha descritto, con immediata rispondenza, un semplice ramo di fiori selvatici, e ne ha fatto un motivo figurale di crudeli eleganze Jugendstil”.
Per questa prepotenza immaginativa e questa disponibilità continua ricerca, spesso si è trovato protagonista di rinnovamenti sconvolgenti, come nello scorcio tra gli anni Quaranta e Cinquanta, quando il suo “segnismo” ha influenzato tutta la pittura romana. E dopo il Sessanta, prima che da noi apparisse tanto fuggevolmente la Pop-Art, molti dovettero rifarsi a lui per uscire dalle secche dell’Oltreinformale. Un poeta, Rafael Alberti, ha colto l’arte di Cagli con questi versi: “Claro pintor de fabulas, exacto – dentro aùn de la cueva màs oscura, – loco de imagen, ciego de aventura, – cortador de las rosas de lo abstracto…”.
«Quando si mette davanti a una tela sa dove vuole arrivare, sa prima di cominciare a lavorare dove vuole arrivare: ha questa cosa in sè, negli occhi, nelle dita, nel corpo; ha questa cosa in sè, nella fantasia, nel sentimento, e questa cosa da questi risultati che sono stupefacenti come miracoli«
Pubblichiamo in esclusiva il testo inedito di una conversazione fra Giuseppe Ungaretti e Alfonso Gatto suIl’ opera e la personalità artistica di Corrado Cagli, con un intervento dello stesso Cagli. Il primo a parlare è Gatto:
“Se pigliamo oggi quasi tutti i pittori italiani, e non soltanto italiani, e di loro volessimo organizzare una mostra di disegni, volessimo testimoniare tutta la loro opera di disegno, di ricerca e di risultati nel campo del disegno credo che pochissimi artisti, oltre a Cagli, potrebbero sostenere questo esame vittorioso, questa traccia della propria storia stilistica.
Perchè il disegno, forse più ancora della pittura, così come lo è il romanzo rispetto alla pura lirica il disegno è anche un modo di giudicare il mondo, non solo di rappresentarlo, è anche un modo di scegliere le immagini del mondo, a significato della parte migliore del mondo stesso, o anche di accusare la parte peggiore del mondo stesso. E credo che Cagli, pur rimanendo nella purezza addirittura eroica, alle volte, del segno, nella qualità ostinata e pura dell’immagine, abbia approfondito la sua ricerca in questa scelta o in questa denuncia delle cose del mondo e è questo che lo fa essere stranamente partecipe delle gloria delle grandi età del disegno e lo fa anche soprattutto testimone, in questi nostri tempi così duri, così commoventi e anche così patetici, della nostra ricerca umana di ogni giorno”.
Prende poi la parola Giuseppe Ungaretti, il quale dice:
“Naturalmente sono d’accordo con Gatto, non da oggi sono d’accordo in tante cose, e da tanti anni, e profondamente. Conosco Cagli da tanti anni, da quando era un bimbo prodigio e poi lo ho visto operare in tanti modi e per tante strade. Tutto Cagli, dalle prime cose, dalle cose che faceva da bambino, alle cose che fa oggi, è sempre il medesimo Cagli, non c’è da confonderlo con un altro, ha uno stile, anche quando sembra mutare. La gente a volte è sorpresa nel trovarsi di fronte a opere di Cagli, a opere di tempi diversi, per la loro diversità: non è una diversità se non apparente. In realtà se uno guarda bene si accorge che c’è una coerenza in tutta questa opera, che è legata dalla stessa ispirazione, dalla stessa natura, dalla stessa volontà e dallo stesso prodigioso dono. Di dove gli sia venuto questo dono, chi lo sa… è il più dotato degli artisti che io abbia conosciuto, e sono tanti anni che vivo in mezzo agli artisti e ho conosciuto i più grandi di questi tempi, italiani e stranieri, e li ho visti lavorare, da cinquanta, da sessanta anni, perchè ho tanti anni sulle spalle.
Quest’uomo è il più sorprendente, è quello che ha avuto maggior grazia. Da chi gli è venuta questa grazia? Non lo so, ma è quello che ha la maggiore grazia, grazia non priva di forza, grazia non priva di sofferenza, non priva di impeto, non priva di foga, non priva di voluttà. È un pittore non grazioso, per carità, grazioso mai, mai! È il contrario del grazioso… Egli possiede una grazia-dono: è sempre partito dal dono…
Carrà era un grande pittore, ma insomma Carrà non aveva dono, aveva una volontà di ferro, ostinazione aveva, e arrivava alla fine dei conti a fare delle cose che rimarranno memorabili nel tempo, ma invece Cagli ha dono, incomincia dal dono, incomincia da questa cosa che gli viene dalla nascita, chissà come. Picasso non ha il dono… Utrillo l’aveva, Braque l’aveva di più di Picasso. Picasso è un grandissimo uomo, non contesto la grandezza di Picasso nella storia dell’arte. E’ fondamentale, nella storia dell’arte, l’apparizione dell’opera di Picasso, ma dico che, insomma, è un pittore che arriva a furia di sforzi, di tentativi e anche, non di imbrogli, ma di ricorsi casuali, dai quali poi vengono fuori dei risultati. Cagli invece quando si mette davanti a una tela sa dove vuole arrivare, sa prima di cominciare a lavorare dove vuole arrivare: ha questa cosa in sè, negli occhi, nelle dita, nel corpo; ha questa cosa in sè, nella fantasia, nel sentimento, e questa cosa dà questi risultati che sono stupefacenti come miracoli”.
A questo punto, interviene di nuovo Gatto:
“Attraverso le parole di Ungaretti intervengono tanti filoni che si potrebbero sia pur di sfuggita toccare per capire veramente che cosa e chi è Cagli, soprattutto che cosa è l’opera disegnativa di Cagli. Tutti noi abbiamo doni nella nostra vita, ma spesso abbiamo, o hanno, doni al plurale: il dono di Cagli è invece un dono singolare che tocca la sua singolarità e direi che la sveglia in ogni momento del suo lavoro, in un lavoro che è d’altra parte memoriale, cioè ha continuamente dentro di sè, oltre che la propria storia, la storia dei propri risultati, i punti di arrivo della propria esperienza, e insieme conserva la meraviglia di quello che è riuscito a trovare. Perchè il disegno di Cagli è sì una ricerca, una ricerca piena di grazia e anche di fatica delle forme, delle immagini e del linguaggio che va cercando, ma è soprattutto il trovare nella obiettività del lavoro e attraverso il lavoro stesso, la meraviglia che l’immagine ottenuta ha ancora il potere di suscitare sull’artista per la sua continua e inquieta fertilità che va avanti, una fertilità ehe non è soltanto negli occhi – “gli occhi fertili”, – come si sa è stata una espressione di Eluard – volendo dire appunto la nascita continua, crescente, continuamente sorgiva e continuamente meditata che l’immagine ha nell’immagine stessa, in questo concrescere continuo della festa dell’immagine, della validità dell’immagine e anche della violenza dell’immagine.
Ma questo nasce anche dal riconoscimento, dalla classicità di Cagli – la metterei tra virgolette classicità – che è quello di capire che nonostante tutte le investiture personali dell’opera, nonostante tutte le sorgività pacifiche e convulse dell’immagine che nasce dal sentimento e dalla soggettività estrema del pittore, a un certo punto l’opera del disegno, così come l’opera della pittura, ha da avere la propria individualità, la propria forza di essere che quasi diventa più forte della forza di essere del pittore stesso. Questa è una cognizione autentica e pura della classicità che Cagli ha, e in questo senso credo sia uno dei pochissimi pittori oggi nel mondo ad averla. In questo senso ha ragione Ungaretti quando sembrava dire quasi paradossalmente che nemmeno Picasso ha il dono che ha Cagli”.
Interviene, infine, lo stesso Corrado Cagli:
“lo ho ascoltato quello che hanno detto il poeta Ungaretti ed il poeta Gatto e quindi non posso essere altro che confuso e non dovrei nemmeno parlare. Non dimentichiamo che, per quei motivi di dialettica sottile che sono sempre corsi tra la poesia, la lirica e l’arte della pittura, la maggiore speranza di ogni pittore in ogni tempo è stata quella di essere capito, sentito dai grandi poeti.
lo credo che se si può parlare di cose effimere e quasi assurde, cioè se volessimo adoperare il termine gloria, quale può essere mai la gloria di un pittore se non quella di essere capito e sentito da quelli che lui più profondamente ama? E tutti i pittori amano la lirica.
Adesso io non voglio giocare su una falsa modestia, io ho una coscienza del mio mestiere, ma soprattutto, per rispondere anche a Gatto, ho una coscienza di quello che uno del suo mestiere deve fare per gli altri e mai per se stesso. Ma tutto questo non ha molto valore di fronte al fatto che dopo la disperazione tipica del nostro secolo, del cercare di farsi capire e non essere capiti, quando ci si sente all’improvviso investiti dalla comprensione della gente che uno più ama e più apprezza non so che cosa si possa aggiungere, se non che veramente allora il disegno è un linguaggio molto antico che a un certo momento può diventare funzionale ai fini delle speranze di un popolo, ai fini delle speranze che continuamente risorgono e insorgono al di là di certi momenti di squallore.
Devo fare una confessione: ero in guerra, e di sorpresa siamo capitati in un campo di concentramento. Il senso del disegnare questi poveri relitti umani non mi è venuto per dei motivi estetici, io non credo che il disegno abbia molto a che vedere con l’estetica, ma ha che vedere con le ragioni della propria presa di coscienza in nome degli altri, prima, e poi di se stessi. Quando sono tornato dalla guerra, e un amico, P.M. Bardi, ha pubblicato trenta miei disegni dai campi di concentramento, io ho lasciato scegliere a lui, io non ero neanche in grado di valutare se fossero dei buoni disegni oppure no, cioè avevo disegnato queste cose soltanto come uno scrive note di viaggio, nel modo più elementare insomma.
E credo, per tornare alla questione del disegno, che il disegno in fondo sia appunto un linguaggio molto, molto antico e d’altra parte elementare: cioè bisogna sempre ricorrere a una economia dei mezzi. Ma non sono nelle condizioni più fortunate per parlare così del disegno, dello stile, ecc. Le questioni estetiche a me interessano poco, in questo momento sono investito da una situazione umana ideale e che mi confonde le idee. Gatto ha puntualizzato questa questione: quando ci sono dei valori umani molto profondi si va molto al di là della questione estetica. Per me Ungaretti è sì un grandissimo poeta, ma è qualche cosa di molto più straordinario ancora, perchè è una continua guida e anche una continua indicazione.
Noi ci mettiamo al disegno come alla pittura non con l’idea di fare una cosa che riesca o non riesca, ma come per mettere in moto una azione che dalla vita parte e poi ritorna alfa vita. In questo caso mi sembra che allora abbiamo colto nel segno se il risultato investe non l’orbita sentimentale ma il sentimento. Se il disegno non è più uno strumento estetico ma è un mezzo morale, io mi auguro di poter continuare a servire in quella direzione.
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Il segno è un elemento strutturale fondamentale nei modi formativi di Cagli: non dico cioè soltanto nel suo disegno, ma anzitutto nella sua stessa pittura, e persino nella sua scultura: e proprio sul segno queste tre modalità operative trovano il loro comune denominatore formale.
Per Cagli dunque il segno è un valore essenziale dell’immagine. Questa si configura in quanto strutturazione di segni, cioè di segmenti, di segmenti-colore, persino di impronte. Non nasce insomma dall’ingorgo della materia, non nasce dal degradare cromatico, non nasce dal puro colore: è sempre segno che s’aggiunge a segno, per ordire, spesso scopertamente “per gemmazione”, una struttura a stratificazioni segniche che si costituisce in immagine: e sia astratta, magari puramente a sezione biomorfica e magari fitomorfica, sia figurativa, persino in qualche caso con movenze se non descrittive, almeno narrative.
Cagli lavora analiticamente, in una concatenazione e sovrapposizione segnica: c’è in lui costante, in ogni suo atto del segnare o del dipingere, la precisa percezione d’un limite dimensionale: il segnare cioè su una superficie: ogni immagine, ogni eventualità di spazio, non è che chiaramente segno (e qui forse agisce remotamente ma in modo determinante l’eredità ideologica cubista dell’oggettualizzazione, antideale, della superficie del foglio, o della tela, che sia). Infatti l’immagine di Cagli non è trasferita né in paziente traduzione, né in rapita scarica e cattura sulla superficie, ma nasce su questa, nel disporsi su questa appunto di concatenazioni segniche, secondo un procedere automatico, che muove liberamente, ma conseguenzialmente, segno dopo segno. Quell’automatismo particolare di Cagli si realizza infatti nella promozione del ductus, che null’altro è se non la concatenazione segnica, non l’errare corsivo inconseguente (e qui agisce indubbiamente un ascendente kleeiano, non tanto per mutazione, quanto per elettiva affinità d’intendere il processo formativo).
L’automatismo di Cagli dunque si realizza nella promozione del ductus segnico, non nel gesto, come invece l’automatismo estremo di tradizione surrealista, fatto proprio dal gestualismo informale. In questo senso l’opera di Cagli ripropone la distanza fra segno e gesto, dissocia infatti il segno dal gesto, riproponendolo come ductus, non come evento dunque bensì come durata. Ed è proprio questa durata che Cagli analizza fino a riconoscerla nella concatenazione segnica. Il gesto infatti esaurisce lo scatto emotivo, la scarica dinamica, è conseguenza d’una freudiana rimozione. Esaurisce il proprio tempo, richiude l’evento, che il segno, unico (si potrebbe dire), e comunque univoco, rappresenta.
Il ductus invece è la flessione del segno, è appunto la sua durata. Prolunga, anziché esaurire il tempo. Si fa traccia che continua, che s’insegue, che si sovrappone, che s’intreccia, che ordisce, anziché semplicemente graffire. E’ una sonda che va, se mai, piuttosto verso gli archetipi junghiani.
Chi vuole ricostruire il percorso formativo di un’immagine di Cagli, non ha che da seguirne il ductus segnico: il concatenarsi appunto di segno dopo segno, di tratto, lineare o cromatico, dopo tratto. E ci si avvedrà che persino le “informi” impronte di Cagli nacquero – siano esse negative o positive – in questo stesso modo.
Che è il modo di controllare e scomporre analiticamente l’immagine. Testimone della tipica dimensione illuministica del modo formativo e perciò della stessa presenza culturale di Cagli. Del resto è nel segno che si salda il valore ideologico e ideografico al quale l’immagine (non certo sensibilistica) di Cagli costantemente aspira, con la volontà stessa di fisicizzare quel valore, come infatti avviene nel ductus. Di qui quella particolarissima misura dell’immagine di
Cagli, non completamente ideale, né completamente fisica, ma tutta proprio tesa nel predisporre e inverare nella reciproca interferenza due sfere che altri, e che altre circostanze culturali, hanno eletto e negato distintamente. Di qui il senso dello “sperimentare” di Cagli: proporre al segno nuove eventualità di orditure e concatenazioni.
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Non è stata finora tracciata una storia della serigrafia. E’ una tecnica recente e anzi recentissima fortuna. Difficile è dunque dire quale ne sia lo specifico in quanto medium figurale. Voglio dire quel margine di possibilità proprie che la rendono distinta e indubbiamente necessaria.
La pittura astratta di tradizione “concretista” nel dopoguerra (in Francia attorno al gruppo di André Bloc e di “Art d’Aujourd’hui”) propose ripetutamente la serigrafia come medium grafico seriale disponibile ad una ricchezza ed univocità di campiture cromatiche altrimenti irrealizzabile. I risultati furono spesso notevoli (da Vasarely a Mortensen, ad Arp stesso, per fare qualche esempio; da noi potrà essere il caso di Reggiani). Già un traguardo sembrava poter servire il tonalismo astratto di Magnelli. Il limite che pareva insuperabile alla serigrafia era appunto quello della mera campitura cromatica, ricca, squillante, ma piatta, uniforme.
I “popists” inglesi e quelli nordamericani negli anni Sessanta hanno sconvolto questo equilibrio, divenuto un limite gravemente pregiudizievole. Introdussero i primi ricche soluzioni di prospettive disegnative in squillanti esiti cromatici, frammenti fotomeccanici, e altro, in una complessiva varietà materiologica eccezionale; i secondi lavorarono soprattutto sulla manipolazione di immagini fotomeccaniche. Phillips e Paolozzi e Tilson e Jones, fra i primi; Rauschenberg e Warhol, fra i secondi: sono nomi che bastano per intendere il senso di questa svolta radicale.
E’ stato il rilancio clamoroso della serigrafia. E’ stato indicare ad un orizzonte che sembrava ormai irrimediabilmente chiuso prospettive inesauribili, quasi infinite. Naturalmente era avvenuto un rinnovamento tecnico profondo: entravano in gioco le pellicole fotografiche, che permettevano l’impiego di immagini modulate, graduate, sgranate. Ogni limite di piattezza era sovvertito, ogni vibrazione, ogni profondità, ogni singolarità di segno diveniva possibile. Il successo clamoroso della serigrafia in questi anni è la conseguenza di quest’azione. La litografia ne risulta soppiantata: o meglio ricondotta verso la propria specificità, come del resto era già accaduto, e si rinnova comunque, per le tecniche incisorie, peraltro prestigiose (e basti il nome di Hayter).
Da circa tre anni, pur senza clamori, come qualcosa di eccezionale nel quadro di questo rinnovamento, ma con una vicenda assolutamente propria e tipica, con proprie scelte, e con diversi interessi figurali, si pone la vicenda del sodalizio Cagli-Nuvolo.
Ma questo sodalizio acquista un suo particolare significato su tutta la precedente esperienza di Nuvolo, già lungo tutti gli anni Cinquanta: voglio dire non soltanto quella di tecnico della serigrafia e di sperimentatore di nuove possibilità (come l’introduzione, che in Italia Nuvolo è stato il primo ad attuare, dell’impiego dei procedimenti fotografici: e comunque sono lì alcune copertine di “Arti Visive”, la famosa rivista di Colla, ad attestarlo – come i numeri 6-7 e 10 del ‘54), ma in particolare l’esperienza di pittore serigrafico, cioè di pittore che usa come propria materia figurale anche sulla tela stessa unicamente il medium serigrafico, e nel caso di Nuvolo avveniva per istituire una propria particolare zona di quelle speculazioni materiologiche che a Roma all’inizio appunto degli anni Cinquanta interessavano un’area larga e di fortissima consistenza espressiva (e un polo ne era Burri): quei dipinti serigrafici che Nuvolo iniziò nel ‘52 (e del ‘53 e ‘54 figurano in “Arti Visive” n.s., n.1 novembre 1954), e che espose in numerose personali dalla primavera del ‘55: ed era quello un uso
naturalmente non riproduttivo ma unico, diciamo “monotipico” della serigrafia, per il quale Emilio Villa nel ‘58 (ma già lo avevo presentato nel ‘55 e su “Arti Visive” l’anno prima) inventò il termine di “serotipie”. E tutto ciò anticipava è chiaro cronologicamente, anche se diverse ne erano le prospettive di problematica formale, gli stessi impieghi ed esercizi serigrafici dei “popists”.
Per questo sodalizio non si tratta semplicemente del fatto che Nuvolo (tecnico prestigioso e senza uguale credo oggi in Italia nel campo della serigrafia d’arte) trascriva serigraficamente opere di Cagli, come in qualche caso è avvenuto, siano disegni, siano inchiostri colorati, siano quegli eccezionali papier velours di alcuni anni fa. Dal sodalizio non nascono solo pretesti per il virtuosismo tecnico di Nuvolo: nascono realmente ipotesi proprio verso un uso specifico del medium serigrafico. E’ così accaduto che allo “sperimentare” segnico di Cagli si è aggiunta una nuova possibilità: quella offerta dalle varianti cromatiche che agiscono sull’immagine mutandone ogni volta, e spesso capovolgendone anzi, i valori, in un gioco d’eventualità significative quanto mai vario, come è avvenuto in particolare nel gruppo fitto degli “unici”, e sta rinnovandosi nella nuovissima serie ancora in corso che impiega strutture imparentate appunto con quei papier velours.
Fra l’altro è contestata l’inevitabilità dell’esito meramente seriale della serigrafia: in questo senso almeno che non necessariamente essa serva soltanto a riprodurre una medesima immagine; ma serva anche a predisporre una gamma combinatoria – cioè di nuove immagini – altrimenti impensabile. Insomma la serigrafia non permette solo la moltiplicazione quantitativa dell’immagine (come qualsiasi altra tecnica grafica), bensì anche la sua proliferazione qualitativa, e in modi che soltanto questo medium permette.
Ma questo sodalizio è in progress, ed è chiaro che non intendo limitare il raggio delle sue possibilità a quanto registrato in queste poche note, soltanto d’apertura e d’invito ad un discorso che occorrerà fare, a fondo, proprio come contributo ad una storia, già dunque piuttosto ricca, del medium serigrafico.
La storia di trent’anni di collaborazionedel pittore col teatro italiano e straniero. Ma c’è anche una mostra dei costumi a Roma, alla « Nuovo Carpine ».
Per la prima volta Bacco e Arianna, Plutone e Proserpina, lady Macbeth, Misantropo, Sileno, re Mida, Filottete, le danaidi, Agnese di Hohenstaufen sono scesi dai loro palcoscenici per entrare in una galleria d’arte, nelle apparenze dei costumi fantastici e smaglianti di colore ideati da Cagli. In occasione della pubblicazione di un volume sul teatro dell’artista.
Forse è anche la prima volta che un editore italiano raccoglie il lavoro dedicato da un pittore al teatro.
I costumi sono incorniciati in sagome di rame, che all’eleganza dei segni e alla preziosità dei tessuti e delle tinte danno l’apparenza di giganteggianti icone, esposti insieme a fondali, arazzi, modelletti di scene (teatrini ricostruiti) alla « Nuovo Carpine », in via delle Mantellate, la sala di esposizione forse più vasta e attrezzata di Roma (la dirige un architetto: Giorgio Braghiroli).
Il volume è stampato dagli Editori Riuniti e testimonia in chiave storica e iconografica dell’attività creativa di Corrado Cagli in campo teatrale. La mostra si è inaugurata in occasione dell’uscita del libro, giovedì scorso.
Il catalogo della mostra, presentato da testi di Giacomino Lanza Tomasi, e da Riccardo Muti, il direttore d’orchestra fiorentino che per il «Maggio» del ’74 diresse l’Agnese di Hohenstaufen di cui Cagli fece scene e costumi, aggiunge cose al volume dal punto di vista letterario e presenta una scelta abbastanza generosa di riproduzioni a colori, « per mettere gli studenti che non potranno comprarsi il libro – mi dice Cagli – in condizione di essere informati ».
Con Corrado Cagli ho condotto una intervista singolare. L’ho interrogato e ascoltato sfogliando con lui il volume degli Editori Riuniti « Cagli la pittura e il teatro ». Domande, ricordi, notazioni di quanto scrive sono stati stimolati dalle immagini e dagli scritti del libro stesso, che è stato un po’ la guida; il tracciato della storia del Cagli autore di costumi e di scene, raccontata qui.
Il volume si apre con una foto del ’47 che fa pensare a quella massima di Wilde secondo il quale è l’arte che inventa la vita. Scattata a New York, l’immagine mostra in piedi, fra Cagli, il compositore Rieti e il coreografo Balanchine, la danzatrice Tanaquil LeClercq pettinata, drappeggiata, atteggiata come se fosse appena uscita da un bozzetto di Cagli, ma la foto è preceduta da una nota dell’editore che motiva il volume, e da una prefazione di Ragghianti che individua nel lavoro di Cagli intorno a scenografie, costumi e macchine teatrali, « una ricerca operante » ai fini di una ricostruzione di quella totalità umana e politica che fu motivo ispiratore di tutta la mobilitazione ideale gramsciana e che è il cuore stesso delle istanze popolari.
La collaborazione di Cagli col teatro nasce al City Center di New York nel ’47 (ma l’anno precedente l’artista ha già contribuito alla riemersione del balletto americano figurando tra i fondatori della « Ballet Society », per la quale disegnerà il manifesto e il programma). L’artista si legherà subito a Strawinsky, a Rieti, a Balanchine. Chiedo a Cagli. Fu difficile entrare come creatore nel teatro americano? Mi rispose: – Tanto per cominciare, fu necessario entrare nella Union, e quindi sostenere addirittura un esame (era la prassi: ci fu costretto perfino Chagall). Per fare scene e costumi non bastava essere pittori: bisognava dimostrarsi preparati in alcune materie come prospettiva, proiezione, teoria delle ombre o scenografia pratica esecutiva. Per gli americani, la qualificazione è molto importante.
– L’esame come riuscì?
– Bene. Fui promosso.
– E DOPO? Come hai lavorato a new York?
– Direi con soddisfazione. Come si vede anche dai disegni, di impostazione classica, ho reagito subito da italiano: invece di assorbire i loro umori imponevo i miei.
Nel 46-47, a New York Cagli era già noto. L’artista si era rifugiato in USA nel ’39, ai primi effetti della campagna razziale, e in Europa era tornato con l’esercito di liberazione, dopo avere combattuto valorosamente in Normandia, Belgio, Germania.
L’incontro col teatro americano, nell’immediato dopoguerra, trovò dunque già disposta un’accoglienza felice. Lincoln Kirstein affidò a Cagli addirittura l’ideazione di un balletto, caso unico nella storia del teatro di ballo, che prima di allora non aveva avuto un pittore come autore creativo dell’idea del lavoro, affidata sempre al compositore.
Cagli scelse il tema dei canti carnescialesci di Lorenzo il Magnifico. Nacque « Il trionfo di Bacco e Arianna », che ebbe come coreografo Balanchine. Per i costumi, il primo ballerino Francis Mancion posò per Cagli. In un primo tempo si era pensato perfino di far danzare i ballerini sul ritmo dei versi del Magnifico. Poi non si volle escludere l’intervento musicale, e il compositore chiamato a dare vita al « Bacco e Arianna », ideato da Cagli fu Vittorio Rieti, ma i ballerini danzarono sulle parole di un coro di Cappella. Chiesi a Cagli:
– Quale fu il primo lavoro di teatro eseguito in Italia?
– Il Tancredi di Rossini per il Maggio musicale del cinquadue.
– Ricordi particolari del Tancredi?
– Posso dire che i costumi non furono solo disegnati: con gli allievi Donnini e Sartoris dipingemmo addirittura le stoffe. Il sipario fu poi trasposto in arazzo. Invece il fondale venne distrutto dall’alluvione. Il libro anche in questo senso si fa testimonianza preziosa: come vedi il lavoro scomparso è riprodotto qui.
NEL 56-57 nasce il sodalizio di Cagli con Millos. Nasce su una nuova versione di Bacco e Arianna, questa volta per le musiche di Albert Roussel. Millos definì questa fatica teatrale di Cagli un grande esempio di « teatro del meraviglioso ».
Sfogliando il volume, Cagli mi dice: – Non è facile rendere in un libro gli effetti dei mezzi scenici. Il fondale di Bacco e Arianna, per esempio, era sovrapposto da un tulle mobile che insieme ai giochi di luci creava effetti, faceva apparire e sparire i boschi, alternare la notte al giorno.
Con Millos, Cagli realizzerà in seguito « Marsia », di Dallapiccola, o « Wandlungen », su musiche di Schonberg, trasportando in teatro, per la prima volta, nei costumi e nelle scene, motivi pittorici di ispirazione astratta (il lavoro fu presentato in trittico con « Inno ai tempi » e « Fantasia indiana » sempre per le scene e i costumi di Cagli, l’Opera di Stato di Vienna). Lo ricorda Millos in una sua nota contenuta nel volume insieme a scritti di musicisti, di critici musicali, di storici del balletto come Petrassi, Vlad, Muti, Tani, Giovanni Carandente o Massimo Bogiankino.
Se in balletti come « Wandlungen » o « Fantasia indiana », Cagli adopera l’astrattismo pittorico, in « Estri » di Petrassi composto nel ’66, utilizza quello scultoreo e crea una struttura mobile – centralizzata sul palco – di grande suggestione e di perfetta adesione alla modernità del testo.
COLLABORAZIONI col teatro a cui l’artista tiene particolarmente sono « Macbeth » di Blok (fu diretto da Sanzogno a «La Scala » per la regia di Squarzina, con Rossi Lemeni nel ruolo di Macbeth), o « Persephone » di Strawinsky (ebbe come risultato, ricorda Vlad, una delle più gloriose rappresentazioni del « Maggio » fiorentino). Due fatiche realizzate in chiave figurativa, la prima risolvendo il motivo sottaciuto e tormentato dall’intrigo con la fantasia del segno; la seconda esaltando la natura in tutta la sua felicità di colori e di forme, con l’invenzione, rimasta celebre, di Demetra, dell’angelo e dei dolci greci coronati di spighe.
Il volume testimonia anche la prima collaborazione di Cagli col cinema per « La Bibbia » di Huston, con le varie elaborazioni, tutte di grande potenza scenica, della torre di Babele, e i costumi del serpente (il protagonista del corruttore della prima coppia del mondo fu il ballerino Flavio Bennati). Alcune pagine singolari riferiscono sulla stretta collaborazione fra regista e pittore: Cagli ha voluto che fossero riprodotti i disegni che Huston abbozzava per suggerire a Cagli le proprie idee.
QUANDO LAVORO a un’opera di teatro, mi interessa sempre che si avverta l’impegno collegiale – mi dice Cagli –. L’esito trionfale dell’Agnese di Hohenstaufen al Maggio fu il risultato di una intesa perfetta fra il direttore d’orchestra, Muti, il regista Enriquez e me. Con Muti studiai in modo analitico i movimenti della scena rotabile, gli effetti di luce in rapporto a quelli degli ottavini che risolveranno musicalmente la parte del temporale. Nel realizzare le scenografie, grazie ai suggerimenti di Muti mi fu possibile penetrare nel complesso metodo compositivo di Spontini. Né sarebbe bastato l’impegno della triade se non avessi lavorato con un direttore degli allestimenti di immensa capacità come Raul Farofi, e un tecnico delle luci del valore di Baroni. E potremmo continuare perché tutte le maestranze del Maggio fiorentino non vengono seconde a quelle di altri teatri, e non solo italiani.
La felice collaborazione con Adriana Panni (la « Missa Brevis » di Strawinsky, realizzata per la « Filarmonica », è rimasta fuori del libro); le interpretazioni perfette di Amodio, della Terabust; di attori come Buazzelli, Scaccia, la Dandolo; Glauco Mauri protagonista e regista del « Filottete »; di Mario Petri (Enrico VI dell’Agnese) vengono citate più volte nel corso del nostro incontro. Pochi artisti come Cagli amano il lavoro collettivo, il teatro offre in questo senso forse le uniche occasioni possibili rimaste a un pittore per lavorare in rapporto con gli altri. Non fosse che per questa sua vocazione, Cagli merita davvero, oggi come pochi, il nome di maestro.