Interviste

Una selezione delle più interessanti interviste a Corrado Cagli

(Associazione Artistica Internazionale, in “Margutta”, 1956)

(in “Marcatrè. Notiziario di cultura contemporanea”, anno II, n. 8-9-10, luglio-agosto-settembre 1964, pp. 220-224)

(M. Nozza, in “L’Europeo”, anno XXI, n. 7, 14 febbraio 1965)

(G. Russo, in “Corriere d’informazione”, 24-25 febbraio 1967, p. 3)

(M. Valsecchi, in “Tempo”, a. XXIX, n. 28, 11 luglio 1967, pp. 72-75)

(M. G. Simonetta, in “Quaderno di Arte e Lettere”, gennaio 1969)

(S. Marchini, in “lo Sport”, anno IV, n. 6, giugno 1969, pp. 67-68)

(L. Vincenti, in “OGGI”, anno XXVIII, n. 19, maggio 1972, pp. 62-64)

(E. Fabiani, in “GENTE”, anno XVI, n. 45, 11 novembre 1972, pp. 106-110)

(P. Levi, in “Bolaffi Arte”, anno IV, n. 33, ottobre 1973, pp. 76-81)

(F. Scarabicchi, in “Il marchigiano”, anno III, n. 106, 7 novembre 1974, pp. 24-27)

(C. Costantini, in “Playmen”, anno IX, n. 1, gennaio 1975, pp. 17-23)

(N. Valentini, in “Domenica del corriere”, n. 17, 22 aprile 1976, pp. 84-87)

  1. – A quali ideali ai ispira la vostra corrente e quali scopi si prefigge?
  2. – Ritenete  che i rapporti attualmente esistenti fra artisti e pubblico siano sufficienti e che esistano possibilità concrete per svilupparli e migliorarli?

Io credo che gli ideali ai quali ai ispira la nostra corrente (quella che i più chiamano erroneamente “Astrattismo” ) non possano essere, se non gli stessi ai quali la corrente opposta (“Realismo”) si ispira.

Certo gli scopi che le opposte tendenze si prefiggono non sembrano essere se non gli stessi, e non di ideali dovremmo parlare, bensì di speranze non dissimili da quelle speranze che animavano il popolo al tempo della Resistenza.

Per questo non di scopi dovremmo ragionare, bensì di compiti assunti. Superiore compito quello di ritrovare le vertebre della spina di una grande tradizione interrotta, nuovamente scoprendo nell’ambito di una coscienza della storia le ragioni ideologiche e gli argomenti ideogrammatici dell’arte della pittura, come oggi la intendiamo, come già intesa dai nostri antichi.

In una situazione che la può fare apparire eclettica e persino contraddittoria, in virtù, e non per colpa, della complessa origine del nostro linguaggio figurativo, la pittura italiana è pervenuta oggi a un punto non certo prevedibile da quanti in Italia operavano sul finire del secolo decimonono.

Ora, che a un più elevato livello degli intenti estetici e morali o che a una maggiore coscienza delle tecniche e del mestiere, abbiano contribuito maggiormente i cosiddetti “Astrattisti” anziché i “Neorealisti” non sta a me, non sta a noi giudicare.

Gli uni e gli altri insieme, io credo, nella loro concitata e spesso animosa vertenza arriveranno a esprimere idee e sentimenti, scopi e ideali del popolo che li esprime fintanto che non vogliano anteporre criteri, gusto a necessità di funzione e non vogliano continuare a perdere un tempo prezioso in ostinate polemiche formali.

Potranno, io credo, più tardi, serenamente riconoscere nel nostro secondo Risorgimento Nazionale le cause determinanti il rinascere di una grande pittura italiana.

Roma. Un’avanguardia continua, una ricerca ininterrotta, una serie di esperienze, di maniere, di contraddizioni, di prove. E, insieme, un artista della generazione di mezzo. Difficile trovare un testimone migliore nel processo alla pittura che è in corso. Ed eccolo qui, il teste-imputato, nella sua casa dell’Aventino piena di quadri così diversi che ci si domanda se non sia un accanito collezionista o un eclettico catalogatore; finché non s’abbassa lo sguardo, e sul bordo destro in basso di tutte quelle tele si vede sempre la stessa firma: Corrado Cagli.

“Sì, è vero”, dice, “sono un eclettico. Ma perché limitare le proprie ricerche, chiudersi dentro soffocanti coerenze, fare subito la bottega di se stessi? Ci sono due tipi di pittori, secondo me: i Courbet e i Corot, che si sviluppano su una superficie piana e si evolvono secondo una storia precisa e rettilinea; e dall’altra parte, i Klee e i Kandinskij, che sono di poliedri a cento facce, e di loro non si può dare un giudizio né tentare una collocazione finché l’ultimo lato non è stato completato e chiarito. Io, il giorno che capissi tutto di me stesso, se intuissi come dipingerò l’anno prossimo, o anche domani, smetterei di dipingere, o andrei in pensione”.

Cagli è impulsivo e nervoso: non riesce neppure a parlare se qualcuno prende appunti di quello che dice, perché gli sembra che il discorso prenda troppo presto una forma chiusa e definitiva, immutabile. Ed anche il suo ragionamento sembra seguire, volta a volta, stile e ispirazioni diverse: ora è nudo e scarno come una relazione o un bilancio, ora è fluido e di variante come la citazione poetica.

Colpevole è la critica

La tesi che lo sperimentalismo (io lo sono sempre stato, uno sperimentalista) derivi dalle scuole straniere che arrivi in Italia con ritardo è assurda e sorprendente. Prima di tutto, da chi? I Picasso, i Braque, gli Chagall, sono fermi da molte decine d’anni, non ci servono più. Siamo noi, semmai, che insegniamo agli altri l’uso di certe tecniche che loro non sospettano neppure. Quando vedo Chagall, è lui a stupirsi del fatto che noi abbiamo abbandonato quasi del tutto il pennello il colore a olio, e usiamo strumenti diversi. E poi, dei tre centri della pittura d’oggi, Roma è senz’altro al primo posto, davanti a Parigi e a New York. Non abbiamo fatto nessuna frettolosa operazione d’aggiornamento, e i veri provinciali sono qui critici che non se ne sono accorti”.

Com’è avvenuto, dunque, questo balzo in avanti della pittura italiana? Con una rottura improvvisa, come sostengono i più giovani, con un rifiuto del passato e una ribellione contro i maestri il novecento, oppure pacificamente? “È stata un’evoluzione naturale, senza rotture. Io avevo 22 anni quando Sironi, che aveva sentito parlare di me per certa pittura murale che avevo fatto fino ad allora, mi mandò a chiamare per lavorare ad un vestibolo della Triennale milanese, vicino a Carrà e allo stesso Sironi. Dipingevo già in un modo diverso da loro, senza preparare cartoni o bozzetti preliminari. Eppure Sironi, che aveva fama di uomo scontroso e collerico, mi lasciò libero di fare quello che volevo, e mi disse anzi che lui stesso stava sforzandosi di improvvisare l’affresco sul muro bianco, senza l’aiuto del cartone. Da allora, abbiamo continuato ad andare avanti, senza rinnegare la tradizione. Della mia generazione, molti, anzi moltissimi si sono perduti per strada, hanno cambiato mestiere o sono diventati troppo commerciali. Ma se da venti o trenta promesse escono tre o quattro buoni pittori, il conto torna abbastanza, no?”.

Cagli, dunque, non ha mai rotto i ponti con i pittori del suo tempo, neppure con quelli (come novecentista, o la scuola romana) che meno gli sono affini. Eppure, è polemico, aggressivo, vivace. Mafai? “Non ha mai avuto polmoni abbastanza, né quando era figurativo, né dopo”. Morandi? “È diventato un eroe a furia da aver paura di tutto: del fascismo, della produzione in serie, del commercio”. Campigli? “Agli inizi, era un buon pittore, anche se già cercava di mettere dei bei rosa accanto a degli azzurri, come nelle riviste di moda”. E non risparmia neppure gli amici: Capogrossi? “Non ha realizzato in pieno se stesso”. Manzù? “Non lo vedo più, non riesco a capirlo bene”. Guttuso? “È un pittore discontinuo. Ha momenti di grandezza e periodi di gravi errori. E poi, malgrado le sue teorie, non è mai stato un realista: nei suoi quadri migliori è un espressionista, negli altri un neo-cubista, un formalista, un naturalista”. Ed ha anche il gusto dei giudizi controcorrente. De Chirico? “Anche se continua a dire e a fare assurdità, è l’autore d’una ventina di quadri che ameremo per sempre, e perciò bisogna smetterla di trattarlo con superiorità e alterigia”.

Chi si salva, allora? Solo i più giovani, i più sperimentali? “Un momento”, dice Cagli, “bisogna distinguere. C’è una massa di pittori che non conta nulla, e ai quali la benedizione di qualche critico illustre ha montato la testa. Io sono sempre stato aperto verso tutte le voci nuove, ho avuto centinaia di allievi molti dei quali sono diventati famosi, li ho aiutati anche materialmente e ho una delle più grosse collezioni di quadri di giovani che ci siano in Italia. Ma quando si cerca di imporre il nome di certi pittori che non hanno mai fatto niente di originale, allora mi ribello. Ma solo per un istante, perché poi penso che non fanno nulla di male a nessuno, che non contano proprio niente, e che il tempo sistemerà i valori e darà delle indicazioni inconfutabili. Quella che rimane colpevole, semmai, è la critica”.

C’è aria di partenza, in casa Cagli. E d’una partenza complicata, anche. Arrivato da Taormina (dove s’è fatto uno studio per dipingere tranquillo), il pittore sta per andare a Milano e a Venezia. Il suo aiutante, che è un giovane pittore, ammucchia bagagli nei corridori, deve risolvere il problema del trasporto di cartoni giganteschi, e di grandi quantità di pastelli e colori. Cagli non smette mai di lavorare, nemmeno quando va, per pochi giorni, a inaugurare la sua sala di ventiquattro quadri alla Biennale di Venezia. Ma siamo arrivati a parlare della critica, e seguitiamo.

“La colpa di tutte le confusioni è sua. E la responsabilità maggiore la porta Argan, anche perché ricopre la carica più alta. Spesso la critica crede di mettersi al passo di colpo, di colmare tutti i ritardi, con qualche proposta un’imposizione pazzesca. Ma da noi arriva sempre dieci anni dopo, ad accettare le nostre ricerche. E allora, siccome il miope non s’è accorto di quello che le è successo sotto il naso, dice che imitiamo dagli altri, che invece son venuti dopo di noi. Ora, siamo tutti d’accordo che la critica è in crisi: non c’è più un linguaggio, non c’è più un’estetica, e chi segue come me i congressi di filosofia sa che questa è una constatazione unanime. Ma allora, proprio per questo, ci vorrebbe più modestia, bisognerebbe fermare il giudizio a quello che si vede e si riesce a capire. E bisognerebbe avere la pazienza di seguire i pittori da vicino, come fa ad esempio, fra i pochissimi, Giuseppe Marchiori, che s’arrampica in tutte le soffitte per vedere cosa stanno facendo dei ragazzi sconosciuti sotto i vent’anni. Gli altri, quasi tutti, sono degli irresponsabili interessati. Per fortuna che, anche loro, gran danno non ne fanno, perché noi andiamo avanti tranquilli per la nostra strada e teniamo doppio solo il pubblico”.

Quando dice “noi”, Cagli intende dire Fontana, Mirko, Burri, Vedova, e forse pochi altri, oltre a Corrado Cagli, naturalmente. Quei pochi, della generazione di mezzo, che non hanno sbandato o non si sono arresi a mezza via. Ma poi chiarisce che parla quasi sempre soltanto in prima persona: lui, Cagli, che è andato sempre per suo conto, non s’è mai legato a fondo con nessuna scuola, è andato a Parigi all’epoca giusta e a New York, per dieci anni, prima degli altri. ed ha una quantità enorme d’opinioni che gli stanno a cuore e che riguardano tutti: Pollock e Mirò, ma anche Leonardo e Piero della Francesca. “Perché la critica non ci segnala mai i pittori importanti al momento giusto? Ce li dobbiamo scoprire per conto nostro. Per fortuna, un pittore non deve tener conto di nessuna poetica e di nessuna teoria, risponde soltanto con il proprio lavoro. A dispetto dei critici, abbiamo raggiunto alcuni risultati importantissimi: prima di tutto, una completa libertà. Possiamo fare quello che vogliamo, usare strumenti e colori a nostro piacimento, e tutto è buono. Se dessimo retta ai professori, faremo ancora il Camposanto di Pisa, riempiendo l’ornato di colore. Nelle scuole s’insegna ancora che non bisogna usare il nero, per via dello spettro solare. E noi, venti o trent’anni fa, abbiamo fatto soltanto quadri bianchi e neri. Con tutta la sua grandezza, un uomo come Cézanne doveva ancora affrontare problemi meschini. Noi non ne abbiamo più, la pittura è completamente libera da ogni regola, da ogni legge. E poi, secondo risultato, abbiamo portato la pittura in testa a tutte le arti, con quindici anni d’anticipo su tutto, con la letteratura e la musica che ci corrono dietro, sulla strada aperta da noi”.

Alle pareti, nei quadri di Cagli, c’è la storia d’una avanguardia ininterrotta, d’un continuo mutamento dei modi di dipingere, e non secondo una vocazione saltellante e solo fantasiosa, ma di volta in volta proprio nel cuore delle scuole sperimentali che stanno appena prendendo un aspetto preciso. Perché, come Cagli ha detto più volte, il pittore moderno deve essere eclettico e analitico, non può avere una sola logica, la sua ispirazione è un labirinto affollatissimo, non bisogna negarsi a nessuna tentazione e a nessun rischio. Sicché si può parlare d’un Cagli che cambia pelle completamente ogni cinque o sei anni, dall’interno, quasi in polemica con se stesso, e sempre isolato. E il pubblico, il mercato, come reagiscono a queste continue trasformazioni?

Nei momenti di pigrizia

“Parlare di mercato, in Italia, mi fa sorridere. Da ragazzo, a Parigi, ho conosciuto i grandi mercanti, quelli che indirizzavano veramente il gusto del pubblico e stimolavano anche la critica. Dove sono, qui da noi? Io credo che si deve distinguere fra un mercato artificiale e un mercato naturale. È solo quest’ultimo quello che conta. Sono le migliaia di persone che, in questo momento, vorrebbero qualcosa di mio, un mio quadro. Ho dei doveri solo verso di loro. Non ho mai accettato contratti, e nemmeno suggerimenti: se a un certo punto vengo a sapere che si vendono molto bene, per esempio, i miei quadri di fiori, è proprio il momento di smettere di farne. Ci sono pittori che vendono cinque o sei quadri all’anno, a prezzi altissimi, e ne ricavano il necessario per vivere bene. Ma io preferisco venderne novanta o cento a prezzi più bassi, e non per fare il populista. Questa corsa al rialzo è preoccupante: ora, per esempio, un Guttuso è quasi raddoppiato. Ma come fa la gente a seguirlo, su quelle cifre? E come reagirà lui? Staremo a vedere. Ma in Italia un mercato autentico non c’è, nel senso d’una organizzazione commerciale efficiente. C’è solo qualche appendice straniera, che spesso è solo una voce volutamente passiva nel bilancio internazionale della ditta, per avere una maggiore detrazione dalle tasse. E quei pochi mercanti non riescono neppure a fare grandi danni, perché il pubblico sa quali sono i pittori che contano, e cerca d’avere i loro quadri”.

Ci trasferiamo in uno studio che è in fondo la casa: ordinatissimo, senza una macchia né una sbavatura. Ma lo studio vero, l’unico dove possono entrare i grandi cartoni e le tele maggiori, è a pochi passi, affacciato sul Circo Massimo. Qui, in una casa, Cagli lavora solo “nei momenti di pigrizia”; e della pigrizia deve avere un’idea stravagante, se gli scaffali e le pareti sono piene di centinaia di gessetti, disegni, tempere, carboncini. E lui è sempre più irrequieto, muta espressione (dal diabolico al cordiale) in un batter d’occhi, e quando credi d’averlo colto in un momento conciliante, eccolo subito pronto a dare un giudizio tagliente, a paragonare un critico a Jago e un altro all’ombra di Banquo o alla strega del Macbeth, a liquidare con una definizione Pollock o un Braque, e a parlare di quei suoi coetanei che non ce l’hanno fatta, si sono smarriti, e oggi fanno i fotografi o gli uomini d’affari, e se dipingono producono quadri come mattonelle o elettrodomestici. O la Biennale …

“Espongo a Venezia i miei quadri migliori d’un decennio, ho una grande sala. Eppure, dico che le mostre e le rassegne si potrebbero abolire senza fare un gran danno. L’ arte non dovrebbe passare attraverso le porte dei ministeri e dei sindacati. I premi, poi, sono sempre frutto d’un compromesso: si premia un artista ufficiale e gradito alla burocrazia, oppure un pittore che non dispiaccia troppo ai francesi, che vogliono sempre che tutta la pittura straniera derivi dalla loro. Negli inviti, si fanno delle scelte spesso sbagliate, e si convocano spesso i pittori con le loro opere peggiori o le più infelici. Certo, è inevitabile che una selezione ci dev’essere, e che una Biennale deve indicare soprattutto dove va la pittura, e cosa si sta facendo in questo momento. Ma bisogna stare attenti alle novità vere, e non seguire i fantasmi proposti o consacrati da certi critici”.

Lo scisma di Bologna

Cagli ha ancora molte cose da dire; su se stesso, innanzitutto, sui suoi strumenti, i suoi colori le sue preferenze. E poi su Gramsci, e sul marxismo (“non è vero che non sia stata tentata l’operazione di recupero del marxismo nelle arti figurative”) e sul convegno di Bologna dove avvenne una specie di scissione, o meglio di scisma fra artisti di sinistra. E ancora su Picasso amato e odiato, e sul paragone fra la situazione d’oggi e quella del Rinascimento, con i continui dubbi (che c’erano anche allora) e le scuole che s’alternavano e gli artisti che entravano in crisi e, se erano artisti veri (cioè eclettici) sopravvivevano. Cagli, lui, sembra aver avuto dieci vite e dieci carriere diverse. E sa tante cose ed ha tante opinioni e potremmo continuare a parlare per un anno se il telefono non squillasse, il salotto non fosse già pieno di gente, e non fosse comparso Mecky. Che è un cane lupo enorme, portato via da Taormina perché mordeva tutti, e trapiantato qui, nel salotto di casa Cagli.

La tua sala è impostata in senso retrospettivo, per sottolineare i passaggi della tua ricerca pittorica negli anni successivi al ’54, che è l’anno ultimo della tua presenza alla Biennale. Però oltre questo carattere retrospettivo, mi pare sia evidente anche la volontà, in quella sala, di sottolineare un carattere tipico della tua ricerca: cioè quello di una ricerca che si svolge sempre su piani direi paralleli, in direzioni diverse e tuttavia contemporanee. Secondo te questo aspetto della ricerca artistica ha per te un valore fondamentale, così da determinare la configurazione stessa della tua opera negli anni, per cui ha un’incidenza determinante?

Nel mio caso, come credo nel caso di alcuni pittori particolarmente rappresentativi degli ultimi sessanta anni, il modo di procedere non è mai univoco, non è mai giocato su una corda sola: c’è una complessità di problemi, una infinità di filoni di ricerca, che si intrecciano, si susseguono come periodi scanditi come per altri pittori. Ci possono essere due, tre, quattro modi che vengono portati avanti parallelamente. Fatta questa considerazione credo che il tempo giovi a vedere la prospettiva esatta delle cose. Non credo che si possa dare al pubblico un’idea precisa, se si fa vedere soltanto un aspetto di quello che poi in realtà sarebbe un poliedro, perché è come rappresentare di un poliedro una sola faccia piana.

Quindi sarebbe come dire che un rapporto con la realtà non può essere che poliedrico e che la realtà stessa è poliedrica?

Secondo me, sì. La differenza basilare tra pittori operanti intorno al 1850 e quelli operanti intorno al 1950 è appunto questa, perché alla mentalità del pittore del secolo XIX questo tipo di problemi non si poneva. Essi iniziavano un loro modo e lo perfezionavano, lo portavano ad un certo raggiungimento e poi seguivano la solita parabola di un pittore che può conoscere momenti più alti e poi momenti di declino, ma sempre legati ad una loro apparente coerenza. Ora è sul termine coerenza che bisognerebbe intendersi. Quello che noi del secolo XX intendiamo per coerenza è rimanere coerenti al primo contatto primordiale con la vis pittorica, con l’urgere della pittura, con l’apparire delle forme e senza avere schemi prefissi o concetti prestabiliti che ci costringerebbero ad essere soltanto univoci, e, nel senso del secolo XX, inespressi. 

Questa tua osservazione mi sembra di grande importanza sotto un profilo anche strettamente critico, cioè come problema che, pur essendo posto dalla tua pittura, arriva ad avere delle conseguenze aldilà della stessa problematica della tua pittura. Direi che apre una prospettiva di carattere critico tutt’altro che consueta in questi anni. Cerco di spiegarmi: l’informale ha riproposto sostanzialmente, non direi in senso programmatico ma certamente nella realtà dei fatti, a posteriori, la misura di un artista quasi sempre univoco ed anche quasi sempre breve nella sua durata. Una brevità ed una univocità che possono avere le loro giustificazioni sul piano di una poetica esistenziale: sul piano del grido, della protesta estrema e nello stesso tempo tentata in una condizione di grande precarietà; ma che tuttavia rappresentano una misura, come ci si può rendere conto ora in una prospettiva di uscita dalla condizione dell’Informale, che non corrisponde certamente a quella della generazione immediatamente precedente l’informale stesso. Voglio dire che l’opera di Klee, di Ernst o di Picasso non corrisponde certo alla misura dell’informale. Nelle tue parole mi sembra che questo porre l’accento sul problema di una durata d’altro genere, di una durata che si rinnova continuamente, sia una prospettiva diversa da questa posta dell’Informale, che si apra viceversa a dei fatti, come tu accennavi, capitali degli ultimi sessant’anni, veramente cioè si apra verso una misura diversa eppure fondamentale nell’arte contemporanea. Secondo te, esiste una tradizione di questo genere? Tu potresti rintracciarmene i caratteri nell’arte contemporanea?

Sì, non soltanto dell’arte contemporanea, anche nell’arte antica, in certi casi. Ma, per rispondere alla tua domanda, nell’arte contemporanea è avvertibile che uno svolgimento pittorico come quello di Picasso non sarebbe concepibile se non si fosse esteso in una direzione del tutto estroversa. E questo per pervenire proprio ad una interiorità, ad una introversione da parte sua con la finalità di essere poi del tutto estroverso nel senso della direzione e della ricerca. Ma questo non è un caso che riguarda soltanto Picasso. Potrei dire cose analoghe su tutti i grandi pittori che vorremmo citare: Kandinsky è un caso tipico,  Klee addirittura esemplare. Nel caso di Klee si potrebbe anzi dire che questa complessità, questo aspetto poliedrico assume una estensione ancora più vasta, anche se ancora non del tutto avvertibile, che nel caso di Picasso. Io direi che Picasso si presenta come un poliedro con un numero piuttosto limitato di facce, mentre Klee si presenta come un poliedro con un numero veramente straordinario di facce, come non si era mai dato nei casi precedenti. Ma siccome avevo detto che si poteva anche citare una tradizione nel mondo antico, si prenda ad esempio la breve attività di Raffaello e si pensi che in pochi anni Raffaello è andato da Lo sposalizio di Brera sino a precorrere Caravaggio ed avercelo già implicito nella sua opera ultima. Si prenda Tiziano che comincia come un pittore del tempo di Palma il Vecchio e si conclude col Tarquinio e Lucrezia dell’Albertina di Vienna che ha già in sé tutti gli elementi della pittura di Renoir. Dunque cosa vediamo ad un certo momento? Che un pittore come Raffaello ha vissuto una vita relativamente breve ma ha vissuto pittoricamente una estensione di molti secoli, millenni anzi, per quanto investe il suo ciclo pittorico e la sua continua contraddittorietà interna, la polemica che lui apriva con se stesso. Se uno poi si ricorda la mostra ciclica di Tiziano di prima della guerra a Venezia, è facile osservare che Tiziano era molto più picassiano di Picasso, e che ogni cinque anni si rimescolava dal profondo. Naturalmente, con la prospettiva dei secoli di mezzo, uno vede la continuità di Tiziano e non pensa più al suo continuo rinnovarsi.

Vorrei ora chiederti un tuo giudizio sull’Informale, che naturalmente è un fenomeno estremamente complesso, e che è stato finora tutt’altro che chiarito. Anzi ci sono dei pareri contrastanti di fondo proprio anche per riconoscere quello che è il perimetro di questo fenomeno anche ricco di contraddizioni interne. Comunque vorrei chiederti un tuo giudizio dal punto di vista di oggi, cioè di una situazione che in certo modo è già al di là o almeno sta uscendo dall’Informale, e tenendo presente anche quella che è una tesi mia, ma che risponde comunque alla realtà dei fatti, cioè che la tua opera ha dei punti di contatto e più che di tangenza rispetto all’arco problematico dell’informale, punti di notevole importanza e che ancora, in questo senso, la critica deve illuminare.

Di fronte alla esperienza dell’Informale, io mi trovo piuttosto freddo, ma per un motivo molto semplice: bisognerebbe abituarsi a distinguere, nella pittura moderna, tra quanto giunge al sintomatico e quanto giunge al simbolico. Ora secondo me, nonostante ne individua gli usi stilistici in certi casi, come l’impiego della materia e il procedere analitico della pittura informale, la mia obiezione sta in questo: normalmente, siccome la finalità di molti pittori rappresentativi del campo informale è quella di non pervenire ad una definizione, di non concludersi in una forma di simbolo, restano nel sintomo. Cioè la breve durata di queste esperienze che tu prima accennavi, dipende appunto dal fatto che c’è alla base una insufficienza organica, una carenza di complessità e quindi anche nei momenti più alti più salienti si può parlare di sintomatico e non di simbolico. Per pervenire al simbolico dovrebbero essere in contraddizione aperta con se stessi, cioè accettare dell’informale le aperture e le condizioni di libertà, ma dovrebbero aprire una dialettica interna tale da potere imbrigliare questo modo informale verso la conclusione e la decantazione di un significato simbolico e non sintomatico.
Questa del resto è la obiezione che io sollevo anche alla action painting, anche nel caso straordinario di Pollock: è sempre insufficientemente organico, non è globale, non è un procedere di tutte le capacità intellettive ed immaginative dell’uomo, ma è un isolare, decantare soltanto certe condizioni, certe possibilità e certi impieghi. Secondo me questo condiziona gli artisti informali e li limita nel tempo e li limita anche nella estensione della temporalità sintetica: non possono fare i conti con il tempo.

Riguardo a questa tua tangenza nell’arco problematico dell’informale attraverso certi aspetti della tua opera, che cosa pensi? Volendo precisare questi aspetti penserei soprattutto al periodo delle impronte, dei motivi cellulari e di quelli smalti sul sacco, cioè tra il ’49 e il ’51 circa.

Può darsi. Io non mi sono mai precluso alcuna esperienza o nessuna via. Penso che la pittura moderna deve registrare come sua maggiore conquista quella della libertà. Ma non appena uno si mette i paraocchi, abbracciando un ismo, una condizione già prefissa, già teorizzata, automaticamente queste libertà vengono perdute. Quindi può darsi benissimo che io di volta in volta sia ricorso a dei modi similari alla action-painting oppure similari alla maniera informale, ma tutto questo era dentro, almeno spero, ai loro alvei (ogni fiume ha i suoi affluenti), volti verso una condizione umana, forse più complessa, che non rifiuti nessun rischio e nessun pericolo.

In questo senso, anche in quei determinati momenti, il tuo contatto con questa problematica informale, che poi del resto è stata stimolante per alcuni problemi sia di carattere segnico sia di un certo automatismo, come appunto nelle impronte, è stato di carattere assolutamente dialettico. Ed io direi che in altri aspetti della tua ricerca di carattere non figurativo, una affine posizione dialettica si può riscontrare rispetto alla tradizione dell’astrattismo geometrico, la tradizione del Concretismo degli anni trenta, che è continuata negli anni con quaranta e cinquanta e che in una ultimissima corrente sembra essere stata ripresa anche se, a parer mio, troppo alla lettera. Ora rispetto sia questa tradizione dell’astrattismo geometrico nella sua realtà e direi anche nella sua importanza storica, cioè rifacendosi alle tesi di Mondrian, di Malevič, se vogliamo di Balla, per trarre un fattore italiano, fino a queste ultimissime riproposizioni, qual è il tuo parere? 

Il mio parere è che questi discorsi vanno sempre portati avanti, ma non con i paraocchi, ripeto, dell’avanguardia, del modernismo a tutti i costi; cioè bisognerebbe andare avanti, ma nel settore, nel terreno della poetica di questi argomenti. In questo senso, quando dico senza i paraocchi della modernità, a tutti i costi, voglio dire che io credo che il tempo delle avanguardie sia scaduto da un pezzo, probabilmente si è conchiuso ai margini della guerra ’14-’18. Dopodiché bisognerebbe che ci fosse una riflessione più profonda su quanto c’è di attuale nel secolo XX e su come spesso corrisponde all’essere estremamente moderni, l’essere anche contemporaneamente estremamente antichi. Avere cioè una tradizione millenaria dietro le spalle, mentre dubito fortemente di quelli che per essere moderni a tutti i costi fanno dei ragionamenti o sviluppano opere nello spazio di tre anni o quattro o cinque e poi vengono considerati scaduti, non appena la situazione polemica che gli ha determinati sia scaduta anch’essa.

In questo senso tu poni una differenza netta nei riguardi di quelle che possono essere delle mere deduzioni.

Io non ho nessuna fiducia nei neo. Come non posso credere al neo-realismo, così non posso credere al neo-Bauhaus, al neo-Dada. Bisognerebbe che la base della pittura ci fosse sempre una forte ragione iniziatica, primordiale. Se uno comincia a fare troppi ripensamenti, sul già accaduto, vuol dire che non lo porta intensamente dentro di sé; la tradizione (i millenni, il tempo che c’è dietro le spalle) dovrebbe essere la sostanza innata dell’uomo, quindi dell’artista che alla parvenza di questa sostanza inevitabilmente aspira.

Questo riferirsi al tempo che è dietro le spalle mi sembra che ci permetta di illuminare un altro aspetto piuttosto sintomatico della ricerca più recente sia dell’Informale stesso, ma soprattutto di una ricerca che è abbastanza diffusa particolarmente in America con deduzioni numerose in Europa, e cioè quella del pop-art, di questa aderenza all’esperienza quotidiana, del vivere sociale dell’uomo oggi in una trama di collegamenti di carattere sociale, quelli cioè che gli americani chiamano mass-media. Ora rispetto a questa esperienza del pop-art, che nella sua aderenza alla attualità rompe praticamente i ponti con la prospettiva di quello che è dietro all’attualità dell’uomo, dunque con la prospettiva storica, qual è il tuo giudizio?

Per ora il mio giudizio sulla pop-art è un giudizio negativo. Prima di tutto perché le opere che ho veduto sostanzialmente mancano di senso di humour, di spirito satirico, di capacità di giudizio e quindi quello che loro vorrebbero condannare, si riflette invece nella loro immaginazione come un semplice specchio. Dopodiché non c’è un giudizio chiaramente espresso, non c’è una ironia che giunga veramente al suo scopo e finisce con l’essere un prodotto che riflette sì il quotidiano, ma appunto come ad esempio in un nostro giornale quotidiano la cronaca nera riflette gli avvenimenti lugubri della giornata, senza però pervenire ad un valore letterario, rimane un fatto di cronaca. Io dubito fortemente che la pop art resti definitivamente nella sintomatica e non giunga mai alla simbolica. E questo non fa nessuna meraviglia perché è un modo d’arte espresso da un paese dove le nevrosi sono all’ordine del giorno, dove le questioni psicologiche hanno sviluppato una grossa industria di psicanalisti. Non sono sicuro che da queste condizioni possano nascere delle opere veramente durevoli; possono nascere delle opere che possono tutt’al più, giustificarsi con le condizioni di vita del loro ambiente sociale.

L’Europeo – Si leggono da ogni parte, negli ultimi tempi, dichiarazioni perentorie attribuite a lei, Corrado Cagli. Eccone tre. Prima: non è vero che la pittura è in crisi. Seconda: è la critica che è in crisi. Terza: anche la letteratura, oggigiorno, corre dietro alla pittura, Moravia segue Vedova, Calvino segue Fontana, Ungaretti segue Mirko, Sanguinetti segue Burri e Gadda segue lei, Cagli. Conferma?

Cagli – Rispondono subito alla terza dichiarazione che mi si attribuisce: non ho mai detto né pensato accostamenti di nomi di questo genere, né so a chi attribuire questa invenzione superficiale quanto malevola. Posso aver detto, semmai, ed è un mio profondo convincimento, che i valori semantici e filologici della pittura sono molto più antichi di quelli della letteratura: i primi popoli innanzitutto hanno «segnato» e poi «scritto»; la scrittura, infatti deriva dal segno. Sulla prima dichiarazione: la crisi della pittura, come lei dice, sono sempre, stato perentorio non c’è crisi: non c’è mai stata, o altrimenti dovremmo convenire che c’è sempre stata. La pittura è in continua evoluzione o metamorfosi: se una crisi c’è, è una crisi che sfiora la superficie della sua vitalità profonda.

L’Europeo – Non ha risposto alla domanda sui critici.

Cagli – I critici invece sono davvero in crisi: nessuno più li capisce, mentre la loro funzione sarebbe di rendere elementare quel che è complesso.

L’Europeo – Erano migliori quando lei era più giovane?

Cagli – Erano ancora più scadenti, ma non portavano, come quelle di oggi, le penne del pavone. I nostri critici, più preoccupati delle posizioni di potere che dei valori dello spirito, hanno immaginazione sibillina e memoria labile. Quando un gigante muore provvedono turbe di pigmei ad occultarne il cadavere: poi segue la congiura del silenzio.

L’Europeo – Qual è, secondo lei, il motivo fondamentale di questo stato di cose?

Cagli – Oggi non esiste un’estetica, chi segue la filosofia lo sa. Questa crisi che investe la filosofia costringe la critica ad un’alternativa tra l’immobilismo e il trasformismo.

L’Europeo – Mentre la pittura, ha affermato lei, non è in crisi. Perché?

Cagli – Perché in pittura ogni esperienza è possibile per una sua insita vitalità. A limitarne il corso non ci sono più pregiudizi.

L’Europeo – Proprio nessuno?

Cagli – Sì, paradossalmente pregiudizi ce ne sono ancora: Afro e Vedova, per esempio, non fanno più figure umane o oggetti e pare quasi agiscano in obbedienza a un fioretto.

L’Europeo – Lei un giorno disse che Modigliani «è un pittore di terzo ordine». Il boom di Modigliani è quindi merito esclusivo di critici legati alle mode, per lei?

Cagli – Certamente. Modigliani è un fenomeno mercantile. Ha male inteso la pittura senese; e quando a Parigi si affermava il cubismo Modigliani era un pittore marginale. Oggi invece si assiste a questo fenomeno: opere di Modigliani valgono cento milioni mentre un ’opera metafisica di De Chirico ne vale quindici. Questo è un rovesciamento di valori che determina una quotazione iniqua. È altrettanto iniquo che un disegno di Picasso si valuti a tre milioni e appena mezzo milione un disegno di Morandi. La superiorità della scuola francese si afferma, appunto, in campo mercantile.

L’Europeo – Già: Roma davanti a Parigi, Roma davanti a New York.

Cagli – Anche questa è una delle tante frasi che mi hanno abusivamente attribuito. Avrò parlato contro le centralizzazioni e avrò indicato in Roma, Parigi e New York tre focolai attivi della pittura attuale, ma avrei anche potuto invertire l’ordine dei nomi: invece mi hanno attribuito la graduatoria come se avessi fatto una dichiarazione sportiva. Comunque porrei sempre Parigi come terza, oramai, se è vero che siamo nel 1965.

L’Europeo – Sostituiamo pure la parola «Roma» con la definizione «pittura italiana contemporanea». Pare che lei le attribuisca un grande ruolo.

Cagli – Esatto. È in errore chi non riconosce all’Italia un apporto sostanziale all’affermarsi della pittura moderna, per non parlare, poi, della sua grande scultura. Troppo spesso da noi si dimentica che la pittura metafisica è nata a Ferrara ad opera di De Chirico e di Carrà, e che il surrealismo trae le sue origini dalla pittura metafisica italiana. Le vane diatribe su tutte queste questioni sono possibili perché noi manchiamo, ripeto, di una critica che si possa chiamare tale.

L’Europeo – E la fortuna di Cagli, allora, è merito esclusivo di Cagli?

Cagli – Debiti ne ho infiniti, da Bardi a Marchiori, da Russoli a Trombadori, a De Grada, ma io non lego la mia fortuna ai critici. Se lei si divertisse ad andare a vedere quello che hanno scritto di me i critici ufficiali, troverebbe ben poco. Da qualche tempo invece i critici giovani si occupano della mia pittura: Crispolti, Tadini, Migliorini, Busignani e tanti altri. I poeti e i letterati, al contrario, si son sempre occupati del mio lavoro: da Bontempelli a Palazzeschi, da Carrieri a Vigorelli. Alla congiura del silenzio hanno largamente collaborato i Brandi, gli Argan, i maggiori critici stranieri, americani e francesi, i quali però mi conoscono benissimo.

L’Europeo – Ci tiene a dichiarare che non ha mercanti alle spalle?

Cagli – Certo: affido le mie opere alle gallerie di volta in volta. Non ho mai firmato contratti e non mi voglio precludere nessuna esperienza. Sono un pittore analitico, di ricerca.

L’Europeo – Lei infatti passa per uno sperimentatore. Qual è la natura di questo suo sperimentare?

Cagli – Non è difficile accorgersi come io appartenga alla tradizione di Klee piuttosto che a quella di Picasso. Klee è volto a un sondaggio in profondità anziché ad una estroversione in superficie.

L’Europeo – Nel 1959 sulla rivista Ulisse, lei scrisse: «Nessuno sa della psiche se non il perimetro di un impenetrabile labirinto dove, tuttavia, i processi associativi sondano e traggono, da una illimitata congerie, argomenti, vocaboli, forme, sensazioni, al fine di comunicare ed esprimere. Nessuno, però, più dei moderni, ha investigato lo spessore di quei sedimenti che occultano, in semi sparsi, le memorie della storia dell’uomo. I moderni, da Cézanne a Mondrian, da Picasso a Klee, hanno in questa congerie gettato per primi come sonda i differenziati processi dell’automatismo analitico». È fondamentalmente, secondo lei, il ruolo della psicologia nell’arte contemporanea?

Cagli – La pittura moderna ha attinto consapevolmente alle fonti della nuova psicologia, traendo dalle scuole psicanalitiche di Freud e di Jung idee e aspirazioni senza fine: né il surrealismo avrebbe potuto descrivere la sua grande parabola se non avesse appunto inteso esprimere, nell’ambito delle tre dimensioni convenzionali, gli oscuri sensi dello spazio-tempo, tramite i moduli mnemonici che governano lo spazio della psiche.

L’Europeo – Anche il ruolo delle scienze pare piuttosto considerevole, almeno a guardare i risultati della sua produzione artistica, non è così?

Cagli – Nei primi decenni di questo secolo vari settori della scienza moderna, per quanto chiusi a pochi iniziati, sembrano aver influito sulle maggiori correnti pittoriche. Si ragiona infatti di geometria non euclidea e di cubismo analitico e, quando la proiettiva si rinnova nella attuazione poliedrica della quarta dimensione, intendimenti affini agli argomenti dell’iperspazio e delle dimensioni enne pervadono l’opera di Braque e di Duchamp e di Picasso. Il compenetrarsi dei volumi e dello spazio è l’idea dominante dell’estetica cubista del periodo orfico.

L’Europeo – Secondo una sua recente affermazione, da lei sottoscritta, «la pittura contemporanea proviene dalla grande avventura orfica».

Cagli – Sì, da quella proviene e da quella tuttavia si distingue, se è pervenuta, al di là degli orrori della guerra, a imporre, alla seconda metà del secolo ventesimo, una crisi morale che solo in parte affiora, e nei suoi aspetti più arcadici, in quei dibattiti che la critica oziosamente ha usato porre sotto le due etichette dell’astrattismo e del realismo.

L’Europeo – Quali errori sono stati commessi in nome dell’astrattismo?

Cagli – In nome dell’astrattismo si sono commessi errori senza fine, celebrando l’epigonismo, ignorando deliberatamente le fonti e la realtà dei fatti, allontanando in nome di un monopolio settario il pubblico e molti di noi dalle maggiori manifestazioni.

L’Europeo – E in nome del realismo, quali errori?

Cagli – In nome del realismo, per ora, si sono commessi errori forse di meno grave portata, anche perché la critica realista, per quanto aprioristica, è poco legata, almeno per ora, al mercantilismo speculativo. In nome del realismo, tuttavia, si tenta ostinatamente di ostacolare, boicottare, svalutare quanto di nuovo si inventa nell’orbita tecnica e in quella strumentale della pittura di ricerca.

L’Europeo – Che cosa pensa della polemica astrattismo-figurativismo?

Cagli – Solo se due fossero i campi, due gli aspetti, due le possibili soluzioni, sarebbe auspicabile una dialettica tra astrattismo e realismo. Ma un grande pittore nel mondo moderno deve già da solo accogliere nell’orbita della sua creatività una dialettica ben più complessa, lasciando maturare la propria funzione nel magma delle contraddizioni interne, a suo rischio e suo danno, se vorrà stupire prima se stesso e poi gli altri: e potrà, nel campo vivo della pittura, servire prima agli altri e poi, semmai, a se stesso, svincolandosi quindi dal giogo mercantile e da simili pastoie.

L’Europeo – Leggo su una rivista del 1933, Quadrante, diretta da Bontempelli e Bardi: «Come l’arte ha i suoi generi (lirica, epica, idillica), così la pittorica ha i suoi, che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l’astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima), si riscatta l’astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell’arte». Era lei, Cagli, che scriveva così. Più di trent’anni fa, quindi, lei aveva già intuito la futilità del dilemma astrattismo-figurativismo. Ma quell’anno, parlo del 1933, nella storia artistica di Corrado Cagli, è importante per un ’altra polemica, quella che va sotto la definizione di Muri ai pittori.

Cagli – Muri ai pittori s’intitolava appunto un mio articolo pubblicato su Quadrante. Intendevo reagire all’incubo della «grandezza», alla retorica dei fasti imperiali e guerrieri, nei termini del «mito», come evocazione di un mondo simbolico e come richiamo alle origini. Per enfasi giovanile arrivavo a sostenere che quanto si faceva in pittura al di fuori della pittura murale era fatica minore. La dichiarazione corrispondeva ad una esigenza unitaria e di destinazione dell’opera d’arte: i muri richiesti dovevano essere infatti sottratti all’imperialismo architettonico di allora.

L’Europeo – Nella primavera di quello stesso anno Sironi la chiamò a Milano per dipingere i muri di Palazzo Bernocchi.

Cagli – Effettivamente quella primavera resta viva nella mia memoria: sembrava proprio che l’utopia della pittura murale dovesse trasformarsi in realtà. Vaste pareti di Palazzo Bernocchi erano state assegnate ai pittori invitati a collaborare a quella Triennale, da Achille Funi a Giorgio de Chirico, da Massimo Campigli a Mario Sironi, da Carlo Carrà a me. Ma, come nella vicenda comicogrottesca vissuta da Alee Guinness nel film La bocca della verità, i grandi muri dipinti al Parco furono, due anni dopo, se non addirittura demoliti, totalmente cancellati.

L’Europeo – Tre anni dopo, a ventisei anni, per la Triennale del 1936, lei eseguì la Battaglia di San Martino, un dipinto a tempera encaustica su tavola, che misura cinque metri e mezzo di altezza per sei e mezzo di base. Questo dipinto si impone ancora oggi, dopo un quarto di secolo, come uno dei punti massimi di arrivo della pittura italiana di allora. Come fu accolto dalla critica ufficiale?

Cagli – Male; non combaciava con la retorica di allora. Le autorità costituite vedevano un pericolo nella ripresa di temi dell’Ottocento, che potevano alimentare il rifiorire di certo pensiero risorgimentale. Noi giovani di fronda di allora consideravamo un «testo» l’epilogo della Storia di Europa di Benedetto Croce.

L’Europeo – Ma la Battaglia di San Martino rappresenta anche un altro fatto, costituisce cioè uno dei massimi risultati della riscoperta degli antichi in atto durante quegli anni. Lei proseguiva la nuova lettura dei testi italiani del Trecento e del Quattrocento, che era già iniziata con la metafisica di De Chirico ed era continuata, su un piano meno enigmatico, col neotradizionalismo dei maestri italiani attorno al 1920. Scriveva il Castelfranco: «Cagli ha riscoperto la metafisica prospettica del primo Rinascimento». E Guttuso: «Cagli ha saccheggiato freneticamente le tavole della nostra tradizione da Piero della Francesca a Paolo Uccello ad Andrea del Castagno». Che valore aveva per lei la tradizione? Che valore ha?

Cagli – Per me ha un valore fondamentale. Può darsi che prima della guerra come lei giustamente diceva sia andato a ricercarla a ritroso nel tempo, come si conviene a un giovane, ma non fermandomi solamente ai sacri testi del primo Rinascimento italiano; ho voluto risalire alle mie fonti: per affinità elettiva alla pittura compendiaria romana. Nel dopoguerra l’intendimento è mutato con l’andare degli anni e con la nuova nozione che la tradizione, e così la cultura, è in noi come la noce nel suo mallo. Allora mi sono rivolto ai metodi analitici per rivelare a me stesso la mia tradizione. Oggi quanto c’è di più moderno lo è in quanto remoto o estremamente antico.

L’Europeo – Nel ’38, proprio quando stava raccogliendo i maggiori consensi tra i giovani, fu costretto all’esilio, perché ebreo. Non poteva avere vita facile uno che, in un momento nel quale in Europa, in nome della ragione, si condannava l’arte degenerata, andava scrivendo frasi di questo genere: «L’irrazionale è la sola cosa che ancora rimanga alla povera umanità contemporanea». Dopo un breve tempo trascorso in Francia, lei raggiunse l’America. È stata importante l’esperienza americana per la sua evoluzione artistica?

Cagli – Non credo. Non ho avuto il tempo di seguire quel che stava succedendo in quegli anni a New York. Sapevo che molti europei erano arrivati ma io non c’ero. Nel ’40, ero già arruolato nell’esercito americano. Dal ’40 al ’45 ho partecipato a cinque campagne in un reparto di artiglieria, dallo sbarco in Normandia fino alle porte di Lipsia. In quel periodo non dipinsi, ho fatto solo a Buchenwald qualche disegno.

L’Europeo – I suoi disegni su Buchenwald e sull’Europa 1945 sono da tempo (insieme ai disegni Gott mit uns di Guttuso e a quelli della Resistenza di Birolli) una testimonianza oculare veramente straordinaria. Ma come trovò l’Italia, quando vi arrivò?

Cagli – Finita la guerra, feci ritorno in America per congedarmi. Passai un periodo molto intenso di lavoro a New York ma sentivo che le mie radici non erano là. Sono tornato in Italia definitivamente nel ’48. Ripresi gli antichi sodalizi, Mirko, Guttuso, Savinio, Bontempelli e altri. Ma con molti, che pure erano amici miei prima della guerra, non sono più riuscito a riprendere il discorso.

L’Europeo – Lei passa per un artista difficile e intellettuale.

Cagli – Non so cosa voglia dire. Piero della Francesca non era intellettuale? Tutti i grandi pittori sono stati intellettuali. Non lo era forse un Michelangelo? per non nominare Leonardo da Vinci. E Picasso, e Max Ernst, non sono intellettuali?

L’Europeo – I collezionisti che vogliono speculare sulle sue opere non sanno come classificarle.

Cagli – Può darsi. E mi auguro di riuscire ad evitare sempre le etichette. Non mi sento farfalla da entomologhi.

L’Europeo – Come giudica la condizione del pittore, in Italia?

Cagli – È una condizione privilegiata.

Questo pittore non ha mai smesso di sperimentare e ama il suo tempo – « In nessun secolo come in questo un artista ha avuto tanta libertà »- La sua casa è uno splendido museo privato contemporaneo

Roma, febbraio.

La casa di Corrado Cagli riflette la moda di quarant’anni fa, quando si costruiva rispettando le distanze regolamentari e il verde. E’ uno dei villini dell’Aventino, un quartiere che sorge vicino ai ruderi della Roma imperiale. L’ingresso della palazzina pare quello della stiva di una nave per la scala che si avvolge verso l’alto e sembra arrivi chissà dove; e, invece, porta solo al secondo piano. Cagli abita al pianterreno.

L’appartamento è al buio, benchè siano le undici della mattina. Qui dentro è vietato di entrare a quella luce che i pittori, invece, ricercano come un elemento prezioso. Tutti gli scuri sono abbassati e devo abituare gli occhi alla penombra. Distinguo, seduta sulla tavola della stanza da pranzo, una dea indiana (una scultura in legno) che mi osserva misteriosa. Regnano in queste stanze, dai pavimenti coperti di grandi tappeti, un ordine e un silenzio soffici. Quando Cagli, alla fine della nostra conversazione, mi mostrerà l’appartamento, mi accorgerò che esso è forse uno dei più importanti musei privati dell’arte contemporanea italiana: le pareti sono coperte fino al soffitto di quadri e di disegni di pittori famosi; c’è scritta cioè su queste pareti, come nei geroglifici egiziani delle tombe sacre, la storia della vita e delle amicizie del pittore.

Cagli non lo avevo mai conosciuto prima. Di lui mi era rimasta in mente una fotografia in cui, appariva con la faccia tutta illuminata; solo la faccia e il resto al corpo immerso nel buio come una inquadratura di un film di Bergman. E Cagli è proprio quello della fotografia: un maglione grigio, pantaloni di grigio più scuro, i capelli grigi come filamenti luminosi, il corpo nervoso.

Cagli, con la faccia scavata e gli occhi così fondi sotto la fronte corrugata, mi siede di fronte, estraneo e ostile. Le mie domande lo urtano. Sono domande imbarazzate da telecronista: « Quali sono i periodi più importanti della sua pittura? Risposta, « Nessun pittore ama parlare in prima persona». « Come trascorre la sua giornata? ». « Lavoro ». L’imbarazzo reciproco cresce.

Poi, d’improvviso, Cagli comincia a parlare della pittura in generale. Paragona quella di questo secolo a quella dell’Ottocento, ma, in realtà, parla della sua pittura, del suo modo di essere artista e mi porge un filo conduttore che io possa svolgere: « Se si guardano i diversi periodi di Picasso, l’uno separato dall’altro, non si riconosce, a prima vista, in nessuno di essi lo stesso pittore. Eppure c’è un filo conduttore comune ». E Cagli aggiunge: « L’importante è non chiudersi mai in un cliché. Tanti hanno cominciato a dipingere con una intuizione giusta ma, poi, ne sono rimasti schiavi, l’hanno cristallizzata. Ecco perchè certi pittori si riconoscono subito: sono rimasti sempre gli stessi e non hanno fatto che ripetersi ».

Il suo è un discorso generale, obiettivo; ma si sente sotto le sue parole l’unghia della polemica. Si capisce che Cagli non ha mai smesso di difendere il suo « sperimentalismo » forse perchè ha bisogno di avere degli avversari per uno stimolo alla sua stessa ricerca continua.

Egli proclama che ama il suo, tempo, questo tempo: « La pittura del XX secolo è molto più appassionante e complessa di quella del secolo XIX perchè in nessun secolo come in questo un artista ha avuto tanta libertà ». L’affermazione può stupire oggi che sono di moda, proprio fra gli artisti, gli allarmi e le denunzie contro il Moloch dell’industria culturale che condizionerebbe ancor più che per il passato l’individuo creatore.

Quanta pittura « pop » o « op » non nasce per le mode indotte da certe esigenze di consumo della società industriale? Cagli dà una risposta interessante: « Considerare oggi la pittura come un investimento o una speculazione è un errore. Certo, l’apparenza può essere quella di una pittura commercializzata perchè c’è una inflazione che nasce dalla euforia dei giovani che non sanno quanto ci è costato conquistare questa libertà, e la confondono con la licenza. Ma questa euforia non deve pregiudicare il giudizio positivo sulla grande libertà che ha oggi l’artista che, fino a ieri, era veramente schiavo o del signore feudale o della borghesia capitalista».

Ma cos’è questa libertà dell’artista di cui Cagli parla? E’ una libertà morale: « La pittura – egli dice – non è un fatto di gusto, ma un fatto etico. Essa esprime un giudizio sul tempo: sul suo tempo ».

In queste parole si precisa il ritratto di un artista, che è stato ed è inquieto nella sua ricerca ma che non dubita della ragione di essa e insieme è un giudizio positivo su un tempo come il nostro che ha conquistato all’uomo nuove dimensioni, interne ed esterne: dall’introspezione di Proust alla psicoanalisi e al microscopio elettronico.

« Il mondo ci appare con una nuova dimensione e un nuovo spazio ed è folle pretendere – dice Cagli – che il pittore guardi all’uomo, come per il passato, dal di fuori tenendosi ad una distanza di cinque o sei metri quando oggi’ può penetrare nel suo intimo profondamente e completamente ». 

Forse in queste parole è la spiegazione della sommessa fiducia nell’arte che anima Cagli, una fiducia che rende accettabile l’idea della pittura come di un’arte in anticipo su tutte le altre, un’arte che affronta, con spregiudicatezza i problemi del suo linguaggio perchè ha l’esigenza di scavare sempre nella realtà umana. Ecco perchè definiremmo Cagli un pittore impegnato, in modo difficile e personalmente sofferto; più impegnato di tanti altri che sbandierano i loro « impegni » politici e sociali. Per questo Cagli non ha bisogno di fare entrare la luce nella sua casa piena di quadri e di disegni dei più celebri pittori italiani.

Quando accende le lampade sfilano i protagonisti della storia della pittura degli ultimi cinquanta anni. C’è anche Steinberg, il famoso disegnatore americano, che ha scritto, su uno dei suoi disegni una dedica spiritosa (è un disegno che ha regalato a Cagli quando questi viveva negli Stati Uniti dove dovette trasferirsi dopo le leggi razziali del ’39): « A Corrado Cagli pittore di strumenti musicagli ».

I « santini » della sua camera da letto sono disegni di Morandi, di Carrà, di Sironi. E proprio davanti al letto c’è la scrivania su cui è appoggiato accanto ai tubetti di colore un cartone rettangolare che è come lo specchio di Cagli. Su di esso mi stende, alcune primizie; le opere che sta preparando per la sua prossima mostra personale che si aprirà a Palermo a fine marzo. Saranno esposte circa duecento opere, presentate da Ungaretti e dal poeta spagnolo Raphael Alberti, che ha anche scritto a mano (come aveva fatto per Picasso) un libro a Cagli. I disegni della Mostra illustreranno opere di Foscolo, di Erasmo da Rotterdam e della Bibbia.

Quando finisco di « specchiarmi » nelle sue opere, Cagli mi fa una piccola rivelazione: possiede una collezione di maglie offertegli dai più famosi calciatori della nazionale. Mi promette che me la mostrerà un’altra volta. Salutandolo, penso che quella collezione è come l’innocente evasione, dell’eremita Cagli, che vive nella sua casa, dedicata alla pittura, proprio come un monaco di clausura nella sua cella.

Mi sono fatto annunciare con una telefonata e ora sto arrivando alla casa di Corrado Cagli. Nell’imminenza dell’incontro ripenso a quando lo vidi poco tempo dopo la guerra, a Milano. Portava ancora la divisa cachi americana con la cravatta infilata nel taglio della camicia e la bustina un po’ spiegazzata nelle mani. D’origine israelita, nel 1938 dovette lasciare l’Italia per Parigi e da qui, poco dopo, raggiunse gli Stati Uniti, militando nell’esercito americano, e in tal modo rifece il percorso inverso, dalla Normandia al Belgio, alla Germania. A Milano comparve tra i giovani del caffè attorno a Brera e fu qui che lo vidi, pieno di animazione, di curiosità, eccitando chiunque lo avvicinasse. Una sera, in un circolo, fu il primo a parlare di certi temi della quarta dimensione portata in pittura. La sala era stracolma di gente e non passò liscia. Certe sue affermazioni, udite per la prima volta, sconcertarono, ne nacque una discussione accalorata che per poco non finì in rissa. Ha ragione Carrieri quando dice che Cagli “immette una corrente pungente nel traffico normale delle relazioni”. Ha sempre bisogno di capovolgere le situazioni e non tanto per inquietudine irrisolta quanto per necessità di ispezionare la realtà o un evento da ogni punto di vista. Dice, giustamente, che non si può trarre una sintesi se prima non si fa un’ampia analisi; e l’arte è sintesi per eccellenza.

Quando suono alla sua porta sento uno scatto rapido di serrature e l’uscio si apre. Vengo dal sole estivo di Roma e mi trovo avvolto nell’ombra, un’ombra fresca e odorosa di fiori. Ho l’impressione netta di addentrarmi in una specie di antro muschioso, procedendo su un pavimento soffice appena rischiarato da basse luci velate. D’istinto tengo le mani alzate davanti, per l’impressione di inciampare in qualche ramo o sporgenza. Finché scorgo una finestra che dà su un giardino e il suo chiarore, o forse perché gli occhi si sono abituati all’ombra, mi illumina lo spazio della stanza. Molti quadri alle pareti, divani verdi, una scultura barbarica, una specie di totem (saprò dopo che è di Mirko) in mezzo alla stanza e un gran mazzo di gladioli in un vaso.

Adesso vedo altre stanze al di là di una porta aperta e disegni appesi e statue d’oriente e cristalli d’opalina sopra un mobile che imitano una natura morta di Morandi. È singolare come duri in me l’impressione di essere entrato in una sfera diversa, dove ogni oggetto si sprofonda in una dimensione senza tempo. Una donna silenziosa mi reca un bicchiere di tè al gelsomino poi resto solo.

Mi accorgo dell’arrivo di Cagli per un fruscio di passi; è già alle mie spalle, uscendo dall’ombra. È piccolo, minuto, e le mani bianche rapide nell’aria. Ora che siede accanto a me lo vedo di profilo. Chi scrisse che Cagli assomiglia a Voltaire? È lui, col mento aguzzo e gli occhi un po’ arrossati. Anche questo aiuta ad abolire lo spessore del tempo. Senonché Cagli non è uomo che divaghi mai, il suo parlare è un continuo aggancio al presente, come se mordesse nella sostanza del vivere; anche se prende il discorso da lontani punti, arriva sempre con fulmineità al centro dei rapporti. Penso che viva in questo silenzio e in questa ombra per una necessità di riposo (gli occhi acquosi e un poco venati) e di concentrazione; ma vibrano le antenne sul corso dell’esistenza e al di là di questa sensazione di mistero che mi ha un po’ stregato, sta immerso nella mischia. Parla svelto, con una voce fioca di falsetto, con parole precise che colgono sempre il segno, anche se gli argomenti si accavallano nel flusso repentino dei pensieri.

«L’America è una grande divoratrice di uomini; e se non li divora li asciuga. Ha inaridito anche gli artisti europei durante gli anni del rifugio; Max Ernst, Léger, Chagall, persino Breton avevano perso il loro smalto, come fossero afflosciati su se stessi. E l’ambiente che non lega, resta amorfo. C’è poca interiorità, tutto è esibito sotto la sferza del progresso meccanico e le idee, come l’arte, restano alla superficie. Il gruppo culturale, in Europa, alimenta la collettività; in America rischia sempre di rimanere inghiottito. Ciò spiega il rapido sviluppo del mercantilismo artistico in America, tutto si riduce ad accatastare tesori nelle collezioni e nei musei, che restano spenti per le coscienze». Tace un poco poi riprende: «Vedi anche i poeti, che appena possono scappano. Ho conosciuto Cummings, voleva fare il pittore, è diventato poeta. Un giorno lo incontro a Roma, di ritorno dalla Grecia e mi confida di dover restare in America per via della lingua, non ne conosce altre, ma ogni tanto gira per il mondo per prendere ossigeno. Tutto sì consuma, in America. Anche l’arte pop è un consumo quotidiano, è arte sintomatica, mai simbolica. Vedi anche la fretta di liquidare gli artisti, o lasciarli soli a dibattersi. Un pittore come Tobey è quasi un estraneo tuttora. Pollock è stato per molto tempo un fatto snobistico di poche persone, e se Gorky avesse avuto il senso della comprensione per la sua pittura, avrebbe avuto più fiducia nella vita e forse non si sarebbe ucciso». «Sei così pessimista dell’America?». «No, non è tanto il pessimismo verso il focolaio artistico americano quanto l’ottimismo che ho verso gli altri focolai europei».

«Quali, per esempio?».

«Prendiamo pure anche quello italiano. Senza farlo pesare a nessuno, gli artisti italiani da venti anni portano idee dappertutto. Penso a Burri, a Mirko, a Colla, a Fontana. Non è un segno sintomatico che molte università americane chiamino a insegnare gli artisti italiani? Avessero i francesi un uomo come Emilio Villa ne farebbero un moderno Apollinaire. Anche Guttuso, benché abbia le sue grosse responsabilità, è un artista che porta idee. Sono lieto che abbia capito Burri, è un bene per lui più che per Burri; non era giusto lasciarlo in anticamera per quindici anni; ciò malgrado Burri si faceva avanti, e Guttuso restava in posizione anacronistica. Burri è un artista, anche se adesso mi sembra invischiato nella sorpresa delle materie più che nell’avvento di un’immagine. E quanto a Morlotti, che ho sempre tenuto in disparte, ora che lo conosco meglio lo preferisco a Fautrier, proprio per la maggior ricchezza del suo spirito. Fautrier rinuncia alla storia dell’uomo, al contrario di Max Ernst che non perde mai nulla, convoglia tutto nella sintesi. Il lato più patetico di Morlotti è che riscatta persino Gola».

Il discorso di Cagli ha preso un ritmo incalzante. La voce rimane sullo stesso tono, ma il fiotto delle parole s’è fatto più stretto e Cagli ansima un poco. «In Italia c’è la preoccupazione di conoscere quel che succede nel mondo. È un segno di vitalità, perché è un segno di interesse verso gli uomini. E questa vitalità dipende anche dal fatto che il mercato, quasi inesistente, non soffoca gli artisti. Mi ricordo Morandi. Una volta gli lessi che in America i suoi dipinti erano stati quotati diecimila dollari. Si fece tradurre la somma in lire italiane e rimase spaventato. Non ha mai voluto seguire le fortune del mercato. Rimane un esempio. Un altro focolaio europeo a cui guardo con molto interesse è quello inglese. È importante per i fatti etici che vi accadono, per gli eventi di vita che sa suscitare che non per l’arte vera e propria».

«E Bacon?», dico io.

«Bacon è un fenomeno che avrebbe dovuto fiorire trent’anni fa, a fianco di Soutine e di Kokoschka. Basta pensare alla disperazione e alla sofferenza più interiore di Soutine per capire come il furore di Bacon sia frusto. Penso anche agli artisti tedeschi, ai quali manca però, dopo la catastrofe, un centro culturale che riassuma la loro attività, tutti e tre, questi gruppi: quello italiano più attento e sensibile, quello inglese così vivace sulla vita e quello tedesco, intenso anche se sparpagliato, mi sembra liquidino l’avventura americana, che misura l’arte sulla cospicuità dei capitali. La mia generazione ha almeno il merito e l’orgoglio di aver aperto la strada alla libertà del pensiero e delle espressioni. Ci pensino i giovani, non per gratitudine, ma per non perdere questa libertà. C’è oggi nei giovani un eccesso di espedienti. Non parlo di sperimentazione, che è un fatto inscindibile dall’arte; ma non si può sottoporre le idee poetiche ai tecnicismi o alle materie. E allo stesso modo si dichiari nettamente il fallimento del neorealismo, non per dare ragione a noi che ne siamo stati sempre fuori, ma per sbarazzare la strada a questa libertà. E se proprio vogliono essere beatles, badino i giovani a non farne un effetto yé-yé. Mi riferisco a Schifano, che pure è acuto. Badino anche al carattere costante della poesia italiana, che è il pudore per i sentimenti, lo smorzato del dire, il segreto emotivo. Ungaretti e Gatto in questo senso sono esemplari».

«Permettimi un’ultima domanda: si parla spesso di eclettismo per la tua pittura, cosa ne pensi?».

«A me sembra che eclettismo sia il modo di accettare passivamente le suggestioni dei fatti culturali. Forse sono eclettici il Pontormo o Andrea del Sarto? Io cerco invece una presa di coscienza sulla complessità della cultura moderna. Vado da un modo all’altro come un pendolo, per allargare i punti di vista e torno così sulla realtà attraverso più ampie prospettive. È un fatto analitico e non un sincretismo. Questa è la differenza più profonda».

Ha l’aspetto di un fisico o di un chirurgo, Corrado Cagli. Preciso, puntuale, severo, nel suo modo di lavorare, come di parlare, di agire, di giudicare. La serietà con cui risponde anche alla domanda più semplice e la meticolosità con cui sceglie le parole, con cui tiene a puntualizzare il suo pensiero, danno esatta l’idea dell’individuo istintivamente portato all’analisi profonda di tutto ciò che si pone alla sua attenzione. Potrebbe addirittura apparire freddo in questo gioco di precisione, se non ci fossero gli scatti improvvisi, le subitanee foghe in cui si lascia trascinare, sia pure per brevi istanti, ritrovando immediatamente la sua apparente imperturbabilità. Capriccioso, incostante, incoerente, frammentario, sono le accuse che più spesso gli sono state rivolte, per le molteplici direzioni in cui il suo lavoro si esplica. E’ troppo presto per poter dire se e fino a che punto questi giudizi siano giustificati, come è troppo presto per sapere se e fino a che punto siano validi i fiumi di parole scritte in sua lode, entusiasticamente e senza riserve. « Bisogna lasciar tempo al tempo », sostiene lo stesso Cagli. Poiché solo il tempo ha il potere di ridimensionare le cose, dando loro il giusto valore. Ciò che è certo, invece, è che Cagli è un inquieto, un insoddisfatto, in una costante ricerca del meglio, inteso soprattutto quale espressione artistica più aderente all’essenza della vita, vale a dire alla verità. Una inquietudine e un’insoddisfazione che traspaiono non soltanto dalla molteplicità delle esperienze del suo lavoro, ma anche dalla profondità con cui vive ciascuna di tali esperienze, da quel suo bisogno di analisi quasi spietata, da quel suo scavare fino in fondo alla più intima essenza delle cose: da ciò, quell’effetto esteriore di ricercatezza, quasi di raffinatezza, che si riscontra nelle sue opere, e che è talvolta scambiato per preziosismo. Ma è una inquietudine che si rivela pure nella sua vita di tutti i giorni, nel suo modo di parlare, nei gesti nervosi delle mani, negli improvvisi scatti d’insofferenza subito repressi, come nei suoi continui spostamenti, nei suoi frequenti viaggi, nel suo bisogno di mutare spesso sede di lavoro, bisogno che lo costringe a fare la spola tra il suo studio di Roma e quello – preferito – di Taormina. A parte il fatto che è nato ad Ancona nel 1910 e che ha compiuto studi classici e frequentato l’Accademia di Belle Arti a Roma, non si sa quasi niente degli anni giovanili di Cagli, delle sue primissime esperienze artistiche. Egli non facilita le cose, restio com’è a parlare di se stesso e della sua vita privata: « Questo non interessa nessuno; ciò che può interessare è, semmai, il mio lavoro », risponde deciso, cambiando discorso. Ma il suo lavoro, in tutte le sue tappe, è ormai cosa nota, dal suo primo periodo 1927-31, al secondo, della « Scuola Romana », dal ’31 al ’38 (che comprende la pubblicazione, nel ’33, del suo famoso scritto polemico « Muri ai pittori », assunto a manifesto dell’epoca), al terzo, dal ’39 al ’45, cioè gli anni parigini- americani, con parentesi finale della sua partecipazione volontaria alla guerra di liberazione, al periodo attuale, infine, cominciato nel ’46, col suo rientro a Roma. Su tutto ciò, sono già stati scritti interi volumi. Quello che invece risulta ancora poco conosciuto è il « personaggio» Cagli, il suo pensiero e il suo giudizio su determinati problemi, il perché di certe sue scelte, il fine di tante sue esperienze. E’ quanto abbiamo cercato di scoprire, rivolgendogli una serie di domande cui l’artista ha risposto con estrema cortesia.

D: Perché La definiscono un pittore eclettico e perché Lei rifiuta questa definizione?

R: La rifiuto perché detesto le etichette, di qualsiasi genere: servono solo a confondere le idee e non significano niente. Che cosa vuol dire essere un pittore eclettico? Forse che tutti gli altri artisti, il cui lavoro è di studio e di ricerca, non sono eclettici? Allora, è eclettico Picasso, Klee e mille altri. In effetti, è un modo sbagliato di contrapporre l’eclettismo al manierismo. A volte, il processo creativo di un artista ha uno sviluppo, per così dire, piano, rettilineo: cioè, interessandosi a un soggetto, concentra il suo studio e le sue esperienze su questo soggetto, per anni, magari per sempre (è il caso, per esempio, di Morandi). Ma, a parte il fatto che molto spesso, inevitabilmente, si finisce col cadere nel manierismo, oggi un tale sistema di lavoro non è più concepibile. Ma pensi un pò alla vita come oggi si svolge: la nostra sensibilità, la nostra mente, la nostra intelligenza, sono continuamente sollecitate a nuove emozioni, a nuove esperienze. E l’artista non può non riflettere questo stato di cose.

D: D’accordo: ma tutto ciò non rischia di risultare dispersivo ai fini del processo creativo dell’artista?

R: Ma nient’affatto. S’intende, siamo sul piano dello studio, non dei mille tentativi inutili. Un artista è legato al suo tempo (anzi, spesso precede i tempi) e quindi riflette le molteplici sollecitazioni che la vita e la società intorno a lui determinano. Ciò non significa che deve trasferirle tutte quante sulla tela. Il suo è un lavoro di scelta e di approfondimento dei problemi, e quindi di coordinamento armonico dei risultati ottenuti.

D: Si può quindi piuttosto parlare di pittori analitici?

R: Esattamente: è un processo che va dall’analisi alla sintesi. In tal senso, si può anche parlare di eclettismo, ma solo inteso quale analisi di molteplici sistemi, poi armonicamente coordinati tra loro. E’ un fatto più che logico, e non capisco perché ci si stupisca tanto. In musica, ciò è sempre avvenuto: basta pensare all’opera di Mozart, che va dalla musica da camera al melodramma, senza che per questo risulti certo meno valida, né tanto meno frammentaria: è sempre stato considerato un prisma a tante facce, ciascuna delle quali ha una sua luminosità ma che tutte insieme formano, per l’appunto, quel prisma. Il fatto è che la gente non ha la pazienza di aspettare, non dà tempo al tempo, e siccome vuol dimostrare di capire, mentre in effetti non capisce affatto, si affretta ad affibbiare etichette. Di Klee, per esempio, si diceva che la sua opera si perdeva in mille direzioni: solo ora si è capito che l’opera di Klee è una sola, con vari aspetti.

D: Ma se oggi, come Lei dice, non è più concepibile altro sistema che quello della molteplicità, come spiega l’esistenza di numerosi pittori, che pure vanno per la maggiore, i quali restano legati a un solo modo di dipingere per decenni, anche per tutta la loro vita?

R: Solo raramente ciò avviene per un effettivo impulso artistico. Quasi sempre, è dovuto al fatto che l’artista ha ceduto alle sollecitazioni esterne, ai compromessi, soprattutto al mercantilismo. Esiste oggi un mercantilismo di tipo neocapitalistico che costituisce il maggior danno e il maggior pericolo per gli artisti. Personalmente, io ho visto centinaia di autentici talenti perdersi nel nulla, per opera dei mercanti. Accade che un artista, a un certo momento, scopre un soggetto o una particolare formula artistica, che lo porta al successo. immediatamente, entra in scena il mercante che, ovviamente a solo scopo commerciale, fa di tutto per legarlo a sé, assicurandosene l’esclusività. Il più delle volte vi riesce, e dal quel momento, il lavoro dell’artista è subordinato alle richieste del mercante, vale a dire è condizionato da quel primo motivo di successo da cui non si allontanerà più. E’ evidente che, a questo punto, l’opera d’arte diventa nient’altro che un prodotto commerciale di consumo.

D: E’ vero; tuttavia bisogna riconoscere che non l’intera responsabilità va addebitata ai mercanti: se gli artisti non fossero disposti a cedere, a scendere a compromessi, le cose andrebbero diversamente.

R: Indubbiamente. Però va anche detto che oggi, contrariamente alle apparenze, gli artisti hanno una vita estremamente dura, molto più che in passato. Vede, ricordo d’aver passato anch’io dei periodi molto difficili (per esempio, gli anni intorno ai ’30-35): eppure, credo che oggi i tempi siano peggiori. Perché, in fondo. è più facile avere a che fare con dei nemici dichiarati, come era allora, anziché con dei nemici subdolamente camuffati da amici, come avviene adesso. Oggi, gli artisti devono barcamenarsi tra il pericolo del successo facile, del divismo, dell’opera d’arte commercializzata, e il boicottaggio di una sorta di mafia in cui sembrano coalizzati mercanti, critici e una parte di pubblico stesso, per cui l’artista o sottostà a determinate regole fisse o non riesce a sfondare, ad entrare nel giro, a farsi conoscere. Così, noi assistiamo continuamente a degli sconcertanti e profondi cambiamenti di personalità. Molti degli artisti che oggi vanno ancora per la maggiore, agli inizi erano degli autentici talenti, mentre adesso non valgono più niente. Che è successo? Che a un certo momento hanno rinunciato alla propria personalità, adeguandosi alla situazione corrente. E per capire questo non è necessario essere esperti: se lei, di un pittore, prende un quadro fatto oggi e, confrontandolo con uno fatto dallo stesso artista trent’anni fa, si accorge che sono tanto simili da poter essere tranquillamente scambiati di data, vuol dire che questo pittore ha buttato via trent’anni, vuol dire che, dopo di allora, non ha avuto più niente da dire e che, sottostando alle regole del mercantilismo imperante, si è limitato in tutto questo tempo a copiare se stesso, il che è ancora più immorale che copiare gli altri.

D: Ma questa è una situazione che oggi si verifica un pò dovunque, non solo nel mondo dell’arte; d’altronde, tra gli artisti stessi ve ne sono parecchi che non reagiscono allo stesso modo, con una accettazione supina, a questo stato di cose.

R: Si, certo, accade un pò dovunque. Veda un pò Pasolini regista: lo ammiravo molto (veramente più come poeta che come regista: e avrebbe fatto meglio a restare poeta): aveva cominciato abbastanza bene, dicendo delle cose intelligenti. Sono bastati pochi anni, per cambiarlo completamente, per farne uno dei tanti. Continua a fare film scadenti, badando bene a circondarli di una certa aria scandalistica che gli assicuri una buona pubblicità. Si, certo: questo succede purtroppo dovunque, ma nel mondo dell’arte forse un pò più che altrove, probabilmente perché gli artisti sono più aperti alle sollecitazioni della vita che li circonda, e quindi, in certo senso, più indifesi. Comunque, la mia non è una giustificazione ma un’amara constatazione. E’ vero, poi, che alcuni di essi reagiscono a questo stato di cose e lottano per andare avanti per la loro strada. Ma sono i meno, mi creda. E comunque, non sono le eccezioni che fanno la regola, la confermano soltanto.

D: Tuttavia, penso che il problema vada visto anche sotto un altro aspetto. Non crede che se gli artisti avessero effettivamente qualcosa da dire, avessero cioè del vero talento, riuscirebbero ad affermarsi nonostante tutto? Non crede che si tratti in realtà di una estrema carenza di autentici artisti?

R: No, assolutamente no. Oggi, l’Italia ha un potenziale artistico molto alto, molto più alto che in tanti altri paesi, Francia compresa. Ma è un potenziale che non ha le possibilità di tradursi in realtà. lo stesso conosco decine di giovani artisti veramente ottimi, che non riescono a farsi conoscere. E come potrebbero, se non c’è una galleria disposta ad esporre le loro opere, se non c’è un critico disposto a scrivere una parola sul loro lavoro? Ecco perché parlavo di mafia. Esistono oggi in Italia una ventina di nomi, sempre gli stessi da anni e anni, considerati gli unici depositari dell’arte vera e oltretutto si tratta di nomi la maggior parte dei quali non ha proprio nessun valore. Ebbene, le loro opere si trovano esposte in tutte le gallerie, con una monotonia esasperante; su di essi, i critici sono sempre pronti a spendere fiumi di parole esaltanti. E poi c’è il pubblico: una maggioranza, impreparata, si lascia intontire da tutta questa messa in scena, mentre una minoranza, preparata, ci specula sopra. Naturalmente, nessuno muove un dito perché le cose cambino: anzi, fanno di tutto perché le cose non cambino.

D: Ecco: il gioco del mercantilismo esiste, indubbiamente, ed è possibile soprattutto perché si trova di fronte un pubblico impreparato. Ma non crede che, a parte l’impreparazione, qualcos’altro intervenga a determinare le preferenze del pubblico? E cioè che esso si senta ancora più vicino ad un’arte più o meno rispondente ai canoni artistici tradizionali anziché all’arte di oggi? In fondo, l’evoluzione dell’arte, come sempre avviene, si è verificata molto più rapidamente che non l’evoluzione del concetto artistico del pubblico. Ma a parte ciò, esiste oggi indiscutibilmente uno stato di confusione nel mondo dell’arte, di cui il pubblico istintivamente diffida e, non sentendosi in grado di distinguere da sé ciò che è valido e ciò che è un bluff, tende a rifiutare l’arte moderna in massa. Non crede che la massima responsabilità di ciò sia proprio degli artisti, i quali, invece di avallare tacendo le innumerevoli speculazioni camuffate da arte d’avanguardia, dovrebbero piuttosto denunciarle e farne piazza pulita?

R: Innanzi tutto, nego assolutamente che il pubblico rifiuti l’arte moderna: è vero, invece, che ne diffida. Ciò a causa di un grosso equivoco, determinato unicamente dai critici, i quali presentano l’arte moderna come qualcosa riservato ad una ristretta élite d’intellettuali, incomprensibile ai comuni mortali. Quindi la gente, dopo aver letto i critici, pretende prima di tutto «capire» l’arte moderna. Una frase che sento ripetere spessissimo è «questo quadro mi piace molto però non lo capisco». Ed è questo l’errore: poiché se il quadro piace è perché lo si è già capito. In altri termini, l’arte va innanzi tutto «sentita» e «gustata», come qualsiasi altra cosa bella, come un bel tramonto, per esempio, o una buona musica. Ed è in questo sentimento dell’arte che sta la comprensione di un’opera. Tutto il resto è secondario. Già, ci sono i significati reconditi, i simboli, le tematiche: mi creda, queste son tutte cose inventate dai critici, sia pure nel senso migliore del termine. Intendo dire che effettivamente un critico, guardando un quadro finito, può scorgervi un certo contenuto filosofico o storico o sociale, ecc. Ma l’artista, quando crea un’opera, non si propone mai una certa tematica: segue semplicemente il proprio sentimento, la propria emozione, il proprio impulso, imbrigliando il tutto naturalmente in determinati canali intellettuali, che si esplicano in una tecnica particolare, in un certo modo di esprimersi, insomma nel proprio linguaggio pittorico. Per quanto riguarda poi la responsabilità degli artisti circa lo stato di confusione esistente nel mondo dell’arte, innanzi tutto devo dire che oggi non c’è assolutamente più confusione di quanta ve ne sia stata in passato. Basta pensare a Tiziano e Leonardo: adesso, a secoli di distanza, tutto sembra chiaro e semplice, ma in quel momento, crede forse che non ci fosse confusione? Ho citato questi due nomi non a caso: Leonardo, soprattutto in Lombardia, aveva schiere di discepoli e seguaci: quanti nomi sono arrivati fino a noi? Tre o quattro in tutto, e neanche molto validi. Ma anche gli altri allora lavoravano ed erano ben quotati. Per non dire poi che ogni grande artista ha sempre avuto dietro miriadi di sottoprodotti, ognuno dei quali voleva dire la sua. E vediamo l’opera di Tiziano: abbraccia una gamma vastissima di esperienze, con intuizioni che precedevano l’evoluzione pittorica di parecchi secoli, fino a riallacciarsi agli Impressionisti. Oggi, noi la vediamo in prospettiva e ci appare perfettamente lineare, ogni esperienza la conseguenza logica della precedente. Ma sui contemporanei, sulla massa, che effetto avrà avuto se non di grande confusione? Sarà il tempo che s’incaricherà di fare piazza pulita dei bluff, ma non vedo proprio dove sia in ciò la responsabilità degli artisti. Che cosa dovremmo fare? Forse una specie di statistica di pittori bravi, meno bravi e da scartare?

D: No, certo, però potrebbero fare altre cose che invece non fanno. Per esempio, potrebbero rifiutarsi di partecipare a manifestazioni di grande richiamo ma di tono decisamente scadente come ormai sono le varie Biennali, Quadriennali, ecc. Lei ha visto l’ultima Biennale? C’erano delle cose interessanti, indubbiamente: però erano soffocate dalla moltitudine di banalità. A parte ogni considerazione sul danno che certamente simili situazioni procurano a un artista valido, non mi vorrà dire che tutto ciò serve a chiarire le idee al pubblico.

R: Non ho visto la Biennale, mi è sfuggita. Non è snobismo, mi creda: ma è che oggi ci sono tante cose interessanti da fare e il tempo passa così in fretta che non possiamo concederci il lusso di sprecarne per delle cose di tanta poca importanza com’è diventata ormai anche la Biennale. Per quanto mi riguarda, le dirò: mi è stato chiesto dagli organizzatori di trasmettere a Mirko l’invito a partecipare alla Biennale, con velata promessa di premio. lo ho puntualmente riferito, ma essendo Mirko un mio carissimo amico, mi sono sentito in dovere di esprimergli il mio parere, sconsigliandolo decisamente dall’accettare. Egli ha poi avuto le sue buone ragioni per parteciparvi, ma dubito che ne sia rimasto soddisfatto. Ciò spiega il mio pensiero. Queste manifestazioni, al punto in cui sono, non servono più a niente. Sono fatte ad uso e consumo della solita cricca di gente che bada soltanto a fare il proprio gioco, non certo ad aiutare l’arte. Non è forse addirittura scandaloso il sistema di assegnazione dei premi?

D: Lo è, però tutti l’accettano, dagli artisti che vi partecipano ai critici che vi spendono fiumi di parole osannanti.

R: Ma quali critici? Quegli stessi che fanno parte della cricca o che sono al servizio, regolarmente stipendiati, di mercanti ed artisti.

D: Ma allora bisogna dire ohe oggi tutta la critica d’arte in Italia è in vendita al migliore offerente?

R: E diciamolo, perché no? Magari non proprio tutta ma la maggioranza: se ne salvano pochissimi nomi. E’ vero che le cose stanno cambiando: la gente comincia ad aprire gli occhi e s’interessa sempre più direttamente e seriamente del mondo dell’arte. Ma soprattutto, c’è tutta una nuova generazione di giovani critici veramente validi di cui ci si può fidare. Forse qualcuno di essi cederà ancora ai compromessi, ma la maggioranza si rivelerà ottimamente preparata e soprattutto lavorerà onestamente, ne sono certo.

D: Questo domani, ma oggi? Possibile che la situazione sia così disastrosa? Eppure ci sono dei critici, come Argan per esempio, il cui giudizio è considerato inappellabile e che fanno il buono e il cattivo tempo nel mondo del l’arte italiana.

R: Una volta, fino a qualche anno fa: ma oggi fortunatamente le cose cambiano, l’ho già detto, la gente sta aprendo gli occhi e non vuole essere presa in giro. Argan stesso, vede, era ed è un eccellente storico, e in quanto tale aveva ed ha tutta la mia stima. Ma una cosa è fare la storia dell’arte, un’altra è farne la critica. E io non dimentico che appena una ventina d’anni fa, il sottoscritto insieme a pochissimi altri artisti italiani ci sgolavamo invano a fare intendere a un folto gruppo di studiosi, tra cui Argan, il concetto di arte moderna. Non ci siamo riusciti: ci consideravano poco meno che mentecatti. Poi, dall’oggi al domani, il salto del fosso: queste stesse persone sono salite in cattedra proclamandosi non solo i padri del l’arte moderna, ma i fautori di ogni più spinta forma d’avanguardia. Bene: lei crede a simili improvvisi mutamenti di pensiero? lo no. Cioè, io credo che ad un tratto possano essersi convinti della necessità di concepire l’arte da un nuovo punto di vista: ma che abbiano capito l’essenza di questa nuova concezione, fino ad assumersene il ruolo di critici, questo no. Penso invece che la storia è sempre la, stessa e per tutti uguale: gioco politico, mercantilismo, interessi di parte. E’ per questo che io rimango fuori giro, perché questo gioco non mi piace e non ci sto. E’ una guerra fredda che dura da anni: tentano un approccio, io rifiuto e loro si vendicano, o meglio: credono di vendicarsi. Così, alla recente mostra della Galleria d’Arte Moderna, «Cento opere di arte italiana dal futurismo ad oggi» (perché poi italiana: se ci sono tanti nomi stranieri?) il mio nome manca: come se la gente non sapesse il ruolo determinante di Cagli nella Scuola Romana o nel movimento di rinnovamento dell’arte italiana del dopoguerra. E’ una vendetta boomerang: nuoce a loro molto più che a me.

D: Soprattutto nuoce all’arte, non Le pare?

R: Già, è proprio per questo che io non mi faccio comprare. Perché è dovere nostro, cioè degli artisti che lavorano seriamente (bene o male, è un altro conto: ma seriamente) salvare il salvabile, restando al di fuori e al di sopra di queste beghe.

D: A proposito del suo lavoro. Lei sa di essere stato accasato di essere incoerente, contraddittorio, frammentario: che cosa ha da dire? Vuole spiegare il perché di tante scelte, il criterio fondamentale del suo lavoro? Che cosa rappresentano le sue opere, una dimostrazione, una ricerca, o che cosa? E attualmente, a che punto sta la sua opera, dove vuole arrivare e dov’è già arrivata?

R: Preferirei non parlarne, perché ritengo superfluo un discorso a parole quando esiste un’opera – cioè un fatto concreto – che può dire molto di più.

D: D’accordo, però esiste anche un fatto di pensiero, nel processo creativo, che è soltanto suo, che nell’opera non traspare e che può benissimo essere detto a parole.

R: Si certo esiste: ma non serve a spiegare il perché d’una scelta o il criterio di lavoro. Cioè, non lo spiega agIi altri, anche se lo spiega a me stesso. L’opera di un artista è un poliedro, che l’artista consegna soltanto quando muore. Fino a quel momento, niente di definitivo può esser detto, né dagli altri né dall’artista stesso, poiché tutto è in corso, in evoluzione. Molteplicità di esperienze? Ma ogni artista è apparentemente illogico: in realtà, in arte una sola logica è dannosa, perciò un artista valido ha sempre una seconda logica della quale non fa mai a meno, anche se non fa mai a meno della prima. Gli altri, i monologici, che si scandalizzano, non si accorgono che ai temperamenti plastici sono necessarie due logiche come alla forma per rivelarsi è necessario l’integrarsi della luce e dell’ombra. L’eclettismo apparente del pittore moderno dipende dall’aver scoperto la natura dei «generi pittorici». Perché di una scelta piuttosto che un’altra e perché di tante scelte? Ma perché l’artista risponde costantemente a una propria esigenza creativa. Dispersivo? Assolutamente no, poiché si tratta di sollecitazioni interiori, di proiezioni del proprio io, che egli non può e non deve fare a meno di sperimentare e analizzare. Per questo un’opera è sempre, insieme, dimostrazione e ricerca e tante altre cose ancora. Contraddittorio? Può darsi, apparentemente, e non per questo meno valido, nel senso che ogni fatto creativo non esclude la validità degli altri. Automatismo analitico: da Cézanne a Mondrian, da Picasso a Klee: non di oggi, dunque, e con risultati stupendi. Processi differenziati, d’accordo: una dialettica a più voci. Ma un artista, oggi, non può e non deve fare a meno di accogliere nell’orbita della propria creatività la più complessa e molteplice delle dialettiche, lasciando che la propria funzione maturi nel magma delle contraddizioni interne, a suo rischio e a suo danno. Così, riesce a stupire prima se stesso e poi gli altri. Mentre nel mondo dell’arte, potrà anche essere utile prima agli altri e poi, semmai, a se stesso, ma soltanto se saprà restar fuori da ogni bega, da ogni gioco di interessi di parte.

D: M. G. Simonetta

R: Corrado Cagli

Magro, lo sguardo vivissimo e intelligente, la sigaretta tra le dita, un’espressione acutamente pronta alla risposta. Corrado Cagli attende le domande, mi invita a sciogliere le prime inevitabili difficoltà di avviare il discorso, stranamente più complicato tra persone che si conoscono da tempo come noi.

« Se mi chiedi di parlare di me, dato il mio carattere, faccio subito l’imitazione di De Chirico o di Turcato … ». E imita Turcato, con accento «veneto» e nasale. Comincio con una domanda di prammatica.

Se dovessi tracciare una linea ascendente, ideale cui si possa legare la tua pittura, a che la riferiresti?

« I riferimenti sono sempre presenti nella mia pittura, sta a voi leggerli. Comunque sono limitati all’Italia centrale. Cioè, malgrado i soggiorni all’estero, come a Parigi e New York, ritengo di non dovere molto alle scuole straniere e, detto questo, sollevo una questione di linguaggio e preciso: se apprezzo intellettualmente certi indirizzi non nazionali, non posso aderire ad essi per mancanza di affinità elettiva. Mi attribuiscono degli interessi « linguistici » extra-italiani: ciò che può essere esatto soltanto nel senso che ogni pittore importante attinge a fonti popolari, folcloristiche come all’arte precolombiana, o della Nuova Guinea, o dell’Africa ecc. Da questo substrato linguistico di cui mi sento partecipe, deriva naturalmente un rifiuto della Pop-art o dell’École de Paris ». Cagli si ferma, si trincera per un lungo attimo dietro una cortina, di fumo, come per riflettere, per assaporare le parole.

Lo interrompo: come spieghi il tuo interesse ricorrente per la mitologia?

« È un fatto innato e non un riconoscimento letterario. È un vedere la realtà in forma mitologica, come è accaduto e accade sempre nel Mediterraneo. Nasce con noi, fa parte integrante della nostra natura ».

Di fronte a un personaggio così inesauribilmente pronto alla risposta, così vario nella imprevedibilità e acutezza delle enunciazioni, non si può non chiedergli come impronti, quotidianamente il suo rapporto di uomo e di artista nei confronti della società.

« Premettendo l’identità tra l’uomo e l’artista, e la differenza del rapporto da paese a paese, direi che in Italia l’attività intesa come partecipazione alla vita del mondo esterno può avere una tangente politica, morale e quindi sociale, mentre negli Stati Uniti, per esempio, questa sarebbe una tesi astratta. Paesi di vecchia civiltà, consentono al poeta o al pittore di esprimere la voce della collettività come singolo, nei paesi nuovi e non solo negli Stati Uniti, questo rapporto non è possibile. Se diciamo con Young che il poeta esprime con la voce corale la collettività, questo avviene solo in paesi di antica tradizione, laddove la base popolare si riconosce in alcuni portatori di simboli».

Qual è la considerazione che il pittore Cagli, giunto a una fase matura e compiuta del suo discorso artistico ha dei giovani colleghi?

« Sono fiducioso. Se paragono l’Italia degli anni ’35-38, trovo che le cose sono profondamente cambiate. Oggi i giovani possono competere con gli equivalenti settori artistici di New York e Parigi, ispirano anzi più fiducia. Naturalmente c’è anche molta improntitudine, e sensibilità in pittori anagraficamente definiti giovani. Può essere più giovanile Picasso che certi quarantenni che fanno malinconia prima a se stessi, poi agli altri. Essi non conoscono la gioia di vivere, hanno basi fragili e l’accademia non l’hanno fatta al momento opportuno. Desumo che giovinezza, maturità e vecchiaia in pittura non siano dati anagrafici e che la giovinezza si conquisti nel tempo. Rembrandt, Michelangelo, Tiziano, hanno dato capolavori in età molto avanzata, capolavori nel senso di un’apertura giovanile verso speranze nuove in pittura ».

Cagli, pittore grande, artista vero, è personaggio che offre ai lettori della nostra rivista un interesse più vicino, che verso ogni altro del suo ambiente. È un amico vero del calcio, uno che di calcio s’intende e che il calcio segue molto da vicino. Non è un atteggiamento artificiale il suo, di partecipazione estetica o indiretta, ma di trasporto sincero, nella comprensione del fenomeno in tutte le sue sfumature, contraddizioni, « negatività ».

Sentiamolo parlare di sport, di calcio, di tifo. Vi convincerete del tessuto autentico della sua passione e della sua competenza.

« Tra gli sport due ne seguo attivamente, calcio e pugilato. Gli altri non m’interessano perché non li capisco e non li apprezzo. Seguo il calcio da sempre, dai tempi della Roma di Bernardini e della Lazio di Sclavi. Ho avuto rapporti diretti con gli atleti d’allora, come ho rapporti diretti con gli atleti, di oggi. Considero il calcio – e l’amo – perché per me rappresenta una sostituzione nella grave falla del teatro nazionale, con il privilegio che non si sa come finisce. È teatro greco, corale, per le popolazioni che in esso convergono, è spettacolo continuo, di arte e combattimento. Mi piace il calcio di tutti i livelli, quello delle grandi squadre e quello che si svolge nei campi minori e, per restare nella mia esperienza, ho seguito formazioni dilettantistiche di  un Colleferro o di un Gianni Sport come ho seguito la Roma e la Lazio. Sempre, impegni di lavoro permettendomi, molte volte trovando il tempo libero o inventando il pretesto, seguo le squadre di calcio che agiscono fuori Roma, come il Torino, la Juventus, il Milan, il Bologna, la Fiorentina, il Cagliari. Posso stabilire anche delle differenze di competenza tra i diversi pubblici d’Italia e trovo che quelli di Bologna, di Firenze, di Milano, sono tra i più « sinceri » e ferrati. Non mi reco mai, ad esempio, nello stadio di Napoli, pur avendo amici tra i calciatori partenopei, perché quella folla mi ricorda l’isterismo collettivo della folla oceanica di Piazza Venezia. Bisogna chiarire, dato che Lo SPORT me ne fornisce l’occasione, il rapporto tra calcio e società. Essendo decadente la società neo-capitalistica italiana, si potrebbe dedurre tout court la decadenza anche del prodotto calcistico. Così non è perché al calcio partecipano le masse popolari le quali creano un rapporto dialettico tra il fatto corale e il fatto speculativo. Né, sono d’accordo con quanti affermano, come Pasolini, che il calcio distrae la massa dai problemi più importanti e da certa realtà sociale. La speculazione del grande calcio può distrarre in clima di fascismo dai fatti seri ma quando la popolazione non è in camicia nera la sua adesione non è distrazione ».

« Quale molla ha il tifo? Anche questa è una domanda alla ,quale mi piace rispondere esaurientemente. Ogni tempo ha i suoi tipi di divertimento. Nel Medioevo poteva offrire i tornei, i caroselli, i palii, solleticando lo spirito antagonistico delle contrade ed era il tifo per spettacoli emozionanti. Oggi il discorso cambia, com’è naturale. La folla ritrova nel calcio certi simboli suoi, nell’andamento del gioco continuo, di fraseggio fluido e forse per questa ragione si detestano gli arbitri che fischiano troppo.

Il tifo non ha, secondo me, una matrice municipalistica perché la folla dimentica, tifando Haller, che Haller è un lanzichenecco. Stabiliamo anche un rapporto tra giocatori di una volta e quelli contemporanei. Io credo che molti campioni di un tempo oggi non potrebbero reggere, nel calcio, moderno, diventato, più  veloce, più fluido, più continuo ».

« Non amo, anzi odio i ritiri, che robotizzano, disumanizzandolo, il giocatore. Non condivido il professionismo nazionale perché non si effettua una indagine vocazionale del giocatore, non lo si avvia ad una attivatà o un mestiere qualsiasi di una certa utilità sociale, da svolgere in pieno dopo il momento delle scarpe al chiodo. Ci sono le eccezioni. Io so di Robotti, ex terzino della Fiorentina, della nazionale e della Roma, che aveva due attività extra calcistiche e le portava avanti assai bene ma la regola è quella dell’imprevidenza generale dell’organizzazione calcistica. Del calcio non amo il giocatore virtuoso. Ero amico del povero Meroni ma come calciatore non mi piaceva perché non era il suo un gioco di squadra. Io preferisco sempre i calciatori che hanno un senso compositivo del gioco, come un Corso, un Riva, un Del Sol, un Prati, un Mazzola, un Rivera. Le folle amano molto i centravanti, che fanno i gol e i portieri che i gol prendono o evitano, amano cioè e s’identificano nei personaggi conclusivi. Io amo molto i numeri 8 e 10, i registi, gli architetti del calcio».

Roma, dicembre

È la storia di un 33 giri messo sul grammofono un centinaio di volte. La musica è di Claudio Monteverdi, il titolo dell’opera: L’incoronazione di Poppea. L’ascoltatore, fanatico dell’antico dramma musicale, è il pittore Corrado Cagli. Mi dice che i monologhi, i dialoghi, i plastici recitativi, le arie di questa preziosa perla del teatro hanno fatto da contrappunto a quasi tutte le sue tele.

Il maestro mi riceve nella sua casa sull’Aventino, più simile a un tempio dell’arte che ad una comune abitazione: mi parla di Monteverdi con un entusiasmo e una competenza da sbalordire, «ma», ribatte ai complimenti, «se discutessimo di sport, mi riscalderei ancora di più».

Quando dipinge, un disco deve girare, deve creargli l’atmosfera. Ha amato la musica fin da fanciullo, fin da quando, trasferitosi a Roma dalla nativa Ancona a soli 5 anni,  sognava di diventare violoncellista:

«Se la mia», osserva Cagli, «fosse stata una famiglia di musicisti» (la madre, Ada Della Pergola, era scrittrice e giornalista; Massimo Bontempelli, suo zio), «probabilmente sarei oggi compositore o concertista. Credo che, quando si abbia una vocazione artistica, sia l’ambiente a condizionarla, a instradarla, ad ispirarne lo sviluppo. Io avrei potuto anche diventare poeta».

Ora non ascolta la musica per hobby, ma per necessità. Insieme con Monteverdi sceglie Guillaume de Machault, con le sue Messe e Canzoni antiche di sei secoli.

Grosso modo, l’arco storico si conclude per lui con Mozart, prima del quale sente moltissimo il verbo di Haendel, Bach e Telemann. Poi il vuoto: respinge il romanticismo con l’eccezione di alcuni lavori cameristici di Beethoven e di Brahms, nonché di tutto Verdi, da lui ritenuto un genio dato dalla somma «Monteverdi più Nievo». Wagner lo lascia indifferente. I contemporanei lo attirano abbastanza: sono Hindemith, Milhaud, Stravinski, Poulenc, Petrassi, Dallapiccola, Maderna, Nono, quasi tutti conosciuti personalmente. Ha avvicinato la prima volta Stravinski, a cui si sente – ha confessato – più vicino spiritualmente che a Picasso, nel ‘33, al «Quirino» di Roma, dove si svolgevano i «Concerti di primavera»: incontro che si tramutò presto in amicizia durante le prove dell’Ottetto a Palazzo Pecci Blunt.

Ed è di poco prima il suo Omaggio a Stravinski. Il grande affetto per il compositore russo non s’è spento: Cagli sta preparando in questi giorni le scene di Persefone per il «Maggio Musicale Fiorentino». Stravinski gli ha fatto intanto sapere che, nonostante gli acciacchi della vecchiaia, avrebbe intenzione di venire in Italia per questo spettacolo.

Si tratta di una delle ultime prove di Cagli nel campo della scenografia in musica. Tra le altre sono rimaste celebri le sue scene per il Trionfo di Bacco e Arianna di Rieti al «City Center» di New York (1948), per il Tancredi di Rossini al «Maggio Fiorentino» (1952), per Macbeth di Bloch alla « Scala » (1959).

Però, se non deve recarvisi per lavoro, non frequenta i teatri. Ha bisogno di sentire la musica nel suo studio col cervello, col cuore, con la fantasia. È da anni che desidera vedere il Don Giovanni di Mozart; e non ci va per il timore di avere magari nella fila davanti una signora con un cappello di piume: assicura che gli guasterebbe tutto. A dire il vero, una volta era meno esigente, soprattutto ai tempi de «Il gruppo dei primordiali», di cui era lui l’anima: erano pittori, scultori, architetti, musicisti, letterati e politici antifascisti presi dalla febbre d’una visione artistica lucida e grandiosa, al di sopra d’ogni sovrastruttura romantica, di cui apparivano saturi i salotti romani d’allora, imbevuti di reboanti parafrasi nel nome dell’abate Liszt.

Il profugo

Raffaele De Grada preciserà che Cagli non si lasciava commuovere dai «pianti» dei romantici, come non si lasciava toccare dalla campagna con tutti i fruscii di merli e di insetti pigolanti. Il pittore viene a poco a poco acquisendo la tempra del filosofo, del ragionatore, del matematico, dell’austero cultore di musiche poco plateali. Dal ‘45 gli si aggiunge l’esperienza dell’uomo profugo in America, tornato da noi nelle vesti del soldato-liberatore, giunto fino allo sbarco in Normandia, fino alla scoperta dei vergognosi campi di Buchenwald.

Una vita vissuta duramente, che ha messo alla prova perfino le sue inclinazioni musicali. Forse Cagli ne è uscito più puro, più attaccato alle antiche polifonie, agli arabeschi musicali del barocco e sempre più nauseato invece dei pettegoli virtuosismi delle prime donne e delle acrobazie di taluni strumentisti della nostra epoca. Preferisce infatti una partitura buona eseguita da gente mediocre piuttosto che un lavoro cattivo nelle mani di ottimi interpreti.

Le sue tele, i suoi arazzi mi colpiscono: attraverso questi par di sentire «cantare» Monteverdi, Machault, Bach, Mozart, Verdi, Stravinski. E nelle sue opere ricorrono frequentemente temi propriamente musicali: dopo la Vocazione di Orfeo nel 31, verrà un ‘33 ricco di riferimenti all’arte sonora (Omaggio a Stravinski, ConcertinoMusicanti). Nel ‘35 Il flautino, nel ‘37 Mirko suona il flauto, nel ‘38 Orfeo incanta le belve, nel ‘42 il Solo per cello, e poi Il trombettiere a Fort Lewis (‘43), Concertino (‘44), Corno e ocarina (‘45) solo per citarne alcuni. Il motivo conduttore è affidato ai fiati. Trombe, corni, flauti, ocarine: adesione completa ad un mondo armonico così diverso da quello che noi intendiamo comunemente.

«Odio il pianoforte», osa insistere Cagli, «per me è lettera morta; come non sopporto gli acuti del violino, che somigliano agli inutili quanto acidi strilli di talune donne borghesi; mentre tollero il pianto, le grida dei bambini… L’invenzione del Cristofori, ossia il pianoforte, con tutta la sua letteratura, non esiste: il mondo sonoro, grande, classico s’è chiuso con le mirabili avventure del clavicembalo, con le danze per liuto». E rievoca il suo esodo in America per sfuggire alla tirannide nazista, quando sulla nave con lui c’era Artur Rubinstein, che molto gentilmente intratteneva i passeggeri suonando Chopin. «Ero disperato», confida Cagli, «alla ricerca di un angolo al quale non arrivasse la voce del pianoforte».

Preferisce i dischi alla radio e ai concerti, perché li ascolta come, dove e per la durata che gli pare. Trova comunque il tempo per la radio, in misura ridotta, quando un autore lo attira particolarmente. Gli anticipo perciò il programma dei concerti e delle opere che la radio metterà in onda nella seconda quindicina di dicembre e gli domando le sue scelte.

Quando apprende che domenica 21 Karl Böhm, insieme con il violinista Wolfgang Schneiderhan e con il violista Conder asteng, eseguirà la Concertante K. 364 di Mozart, il suo volto s’illumina: pare aver dimenticato di avermi confessato poc’anzi tanta inimicizia per il violino e sbotta in uno «splendida!».

Nostalgia

Davanti a Mozart egli si inchina; al contrario gli dicono poco i Concerti per pianoforte di Beethoven nella trasmissione di domenica 14, pur con la partecipazione di un colosso qual è Emil Ghilels. A nominargli la K. 364 si commuove: gli torna la nostalgia dei tempi (il ‘47) in cui aveva ideato con Balanchine un balletto su queste battute.

Altro programma sinfonico che si ripromette di seguire e che consiglia agli amatori del «decorativo» e agli appassionati del flauto è quello con Charles Munch interprete de La mer di Debussy e di Dafni e Cloe di Ravel.

Spera inoltre di avere il temро per ascoltare il concerto diretto da Weissman, «ma», precisa, «solo per l’ “Adagietto” della Quinta di Mahler, perché né L’idillio di Sigfrido (i brividi, il senso cosmico di Wagner mi indispongono), né la Valse triste di Sibelius, né il Divertimento di Ibert mi interessano ».

Il non plus ultra rappresenteranno per lui i Sei concerti op. 4 per organo e orchestra di Haendel, affidati mercoledì 24 sul Nazionale a Karl Richter; mentre si augura di non incappare nella Tragica di Schubert, che gli fa l’effetto di Francesca Bertini sullo schermo, o, nel migliore dei casi, di Greta Garbo.

E a questo punto ricorda di aver conosciuto la Bertini insieme con Mirko nel ‘37, alla Birreria dei SS. Apostoli a Roma.

No a Paganini

Fortunatamente, in una trasmissione di mercoledì 17 figura Verklärte Nacht di Schönberg, dopo la quale «mi guarderei bene», aggiunge, «dall’ascoltare il Concerto in re per violino e orchestra di Paganini ».

Esplode in un «di corsa! » alla Passione secondo S. Matteo di Bach diretta da Abbado martedì 16, e a Y su sangre ya viene cantando di Nono. Viceversa, non vuol neppure sentir nominare Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, e sorride davanti a tante «prime» di contemporanei, «con titoli», osserva, «rubacchiati alle arti figurative, forse anche a me: come la Forma n. 7 di Renosto (sabato 27), e il Reticolo IV di Aldo Clémenti (lunedì 15)».

Infine un no secco alla Bohème di Puccini, in onda martedì 30 sul Nazionale: «Non sopporto Puccini: mi pare il padre di Menotti. Può darsi invece che ascolti, il giorno di Natale, La dama di picche di Ciaikovski, autore che mi è molto simpatico».

Di fronte a così severe esigenze mi meraviglio che gli piacciano infine i Beatles: quei canti, quei ritmi lo inebriano.

Dice: «I loro dischi mi riportano come per incanto alla musica preelisabettiana: un mirabile rigurgito della vecchia Europa», così come trova bello e divertente lo spettacolo dei capelloni a Piazza di Spagna: «Mi sembra di veder rivivere gli antichi girovaghi della Provenza… E non è davvero Monteverdi a impedirmi di dar retta ai Beatles, ai capelloni, e, perchè no, di chiudere gli occhi e di ascoltare gli spirituals o i canti popolari delle Ande».

Roma, aprile

Corrado Cagli abita in un palazzo vicino all’Aventino, vive protetto dal segretario che seleziona con cura le visite, lavora intensamente e si dedica alle letture preferite. Ama l’arte, la cultura, la verità. Infatti è stato definito da Carlo Ragghianti, in un saggio recente, «artista copernichiano» e «una delle più affilate, anzi taglienti intelligenze del nostro tempo».

«Tra gennaio e febbraio», mi dice Cagli, «c’è stata a Palazzo Strozzi di Firenze la mostra antologica delle mie opere, all’incirca 600, realizzate tra il 1935 e il 1971. Migliaia e migliaia di visitatori, tra cui molti giovani, La migliore risposta alle contestazioni e alla crisi della Biennale di Venezia. L’interesse per l’arte c’è, purché le iniziative siano valide. Soddisfatto? Certamente. E ora, siccome non ho rimpianti di alcun genere mentre l’unica condizione che non sopporterei è quella del disoccupato, sto decidendo il programma dei prossimi mesi. Se accettare o meno la proposta del teatro di Stato di Vienna, per le scenografie del Mosè e Aronne di Schoenberg. Fosse Stravinski, avrei già detto sì. Andrò a vedere se anche con Schoenberg scatta la molla delle affinità elettive. Il comune di Siena vorrebbe affidarmi la creazione del palio, il tradizionale drappo di stoffa conteso tra sedici contrade il giorno dell’Assunta. Un’esperienza interessante, affrontata lo scorso anno da Guttuso. Il palio viene montato sul carroccio e mostrato a un pubblico vasto, popolare: sessantamila persone. Il ritorno ai tempi antichi, alla tradizione».

L’infanzia

Corrado Cagli, nato ad Ancona nel 1910, cresciuto a Roma, studi classici e artistici, vocazione precoce, carattere deciso. Dice l’artista: «Se penso all’infanzia, mi vedo a quattro anni occupato a ritagliare figurine di animali dai giornalini, con l’ausilio di una servetta. Creavo collages. Mia madre, Ada Cagli Della Pergola, si dedicava alle scritture con lo pseudonimo di Fiducia.

Ebbi per zio e padrino Massimo Bontempelli. La mia scelta precoce, fu ostacalata da mio padre, che era professore e mi voleva insegnante. A 15 anni me ne andai di casa, a 19 dirigevo una fabbrica di ceramiche in Umbria; prima, diciassettenne, guadagnai settimila lire dipingendo parecchi metri quadrati di decorazioni in una palestra (tempera all’uovo). Era una grossa cifra e la comunicai a papà: guadagnava 1000 lire al mese.

Gli studi

«Il liceo artistico e l’accademia non mi hanno insegnato granché. Ho un vecchio debito verso Paolo Paschetto, anziano maestro di cui frequentavo lo studio come allievo privato. Il mio nome uscì fuori nel 1933, Sironi mi affidò l’incarico di una grande opera murale nel vestibolo della Triennale di Milano. Se stilisticamente ero immaturo, conoscevo il mestiere perché ero alla mia sesta esperienza murale. Dovevo piuttosto reggere il paragone con Campigli, Carrà, De Chirico, meno giovani di me, ma privi di esperienza specifica.

Il gruppo romano

Intanto a Roma non accadeva nulla, presi l’iniziativa di formare un gruppo con Capogrossi, Cavalli, Pirandello. Uniti nella ricerca di un’impostazione qualitativa e stilistica, rifiutando la retorica del ‘900 e del regime fascista. La ripresa di temi mitologici e risorgimentali. Fu appunto ispirandomi al Risorgimento che dipinsi La battaglia di San Martino e Solferino, un’intera parete della Triennale. Di solito davano dei temi, pare che quell’anno avessero chiesto un riferimento all’estate della gioventù del littorio. Questa mia opera, boicottata dalla stampa fascista, lì per lì non ebbe esito e venne in fondo riscoperta nel dopoguerra. Non fu certo un’eccezione. Un ciclo pittorico, in genere, non viene inteso subito. Nella pittura c’è sempre un minimo di anticipo, di profezia. Tengo a sottolineare che Sironi, che era nel direttivo della Triennale, fu con me d’accordo nel lasciarmi fare. Ho continuato a conservare con Sironi un legame di rispetto e di amicizia anche quando le vicenda della politica ci hanno diviso.

L’esilio

Nel ‘38 la polemica in campo artistico fu eclissata da altri problemi. Con l’introduzione in Italia delle leggi razziali di Hitler, mi trasferii dapprima a Parigi quindi a New York. Nel ‘41 mi arruolai nell’esercito degli Stati Uniti: volontario, per avere la facoltà di scegliere il teatro di operazioni. Non avrei mai partecipato, per esempio, allo sbarco in Sicilia. Con un reparto d’artiglieria affrontai cinque campagne d’Europa, dalla Normandia fino a Lipsia. La guerra, per chi vince, non è poi tanto terribile. Avemmo un momento di perplessità nella battaglia delle Ardenne, durante la fulminea controffensiva di Von Rundstedt. Eravamo talmente ottimisti che la ritirata strategica ci sorprese privi di cappotti e giacconi, in maniche di camicia, mentre infuriava la bufera. Una settimana non infernale, piuttosto glaciale. Raggiungendo i campi di sterminio di Buchenwald avvenne la scoperta del genocidio organizzato, di cui ignoravamo l’esistenza, Quello fu l’inferno. Seimila corpi torturati e privi di vita sul piazzale del lager, i superstiti ridotti pelle e ossa. Comunque non ho mai perduto la fiducia nell’uomo; al contrario, penetrando nella Germania devastata, mi liberai dal complesso di odio verso i tedeschi.

Il ritorno

«Smessa l’uniforme tornai alla mia vocazione avviando uno studio a New York. Mi accorsi presto che se noi eravamo usciti dal fascismo la società americana, in fase di involuzione, ci andava incontro col maccartismo. A metà del ‘48 ero di nuovo a Roma. Se ebbi poi a pentirmi di questo ritorno, della mia scelta? Niente affatto. Prendiamo la Francia; fu grande finché Parigi seppe valorizzare la provincia. Ma dal ‘45 in avanti non ha più dato alcuna indicazione. Noi della generazione di mezzo abbiamo avuto, per citare un solo nome, Mirko, che per dodici anni ha influenzato la situazione artistica americana. Sfido chiunque a citare un nome francese altrettanto valido. Bisogna rispolverare Bernard Buffet, che considero “La Sagan dell’arte”. Gli americani hanno avuto un periodo di pienezza e vigore nel dopoguerra, poi i miliardi hanno trasformato l’arte in prodotti commerciali.

Compresa la “pop”. La verità è che i quattrini e l’arte non vanno d’accordo. Dietro Van Gogh e Cézanne c’era il potere spirituale. Se si passa al potere temporale, avviene uno scadimento. Credo che una delle ragioni del vigore e della solidità della scuola italiana di questi anni sia da ricercarsi nel fatto che non esiste da noi un mercantilismo organizzato come in Francia e USA.

Per i giovani

«Agli artisti giovani consiglio di seguire la vocazione e difendere a denti stretti la libertà. Libertà che può essere soffocata dall’arte del regime (paesi dell’Est) o dalle lusinghe del mercato (paesi dell’Ovest). È stupido porre dei limiti alle proprie ricerche soltanto perché un certo “genere” di pittura ha successo; è sbagliato condizionare a priori la maniera di esprimersi.

Le polemiche tipo astratto o figurativo, valutate a distanza di pochi anni risultano futili, inconsistenti. Michelangelo, nel Bacile con asciugamano, è più astratto di Magnelli. Ma le sue conquiste in campo astratto non gli impedirono di concludere con la Pietà Rondanini e la Pietà da Palestrina.

Artista copernicano

«La considero un’intuizione critica. Concordo perché mi fa riflettere all’idea del pittore che si ha nel secolo ventesimo rispetto al pittore del secolo scorso. Un abisso nel passaggio tra i due secoli. Ricorrendo a dei simboli possiamo dire che Corot è andato svolgendo la sua vicenda nell’ambito di una superficie piana, il quadrato. Il pittore del ventesimo secolo passa da una superficie a un’altra superficie, finché descrive un poliedro che presenta un numero “enne” di facce. I pittori moderni, quando ricorrono a certi processi di automatismo analitico, affondano la loro indagine nell’inconscio ancestrale e finiscono con l’attingere a fonti non note nemmeno a loro stessi.

Quindi acquistano un enorme vantaggio sui colleghi del passato, una somma di tempi di cui gli altri nemmeno sospettavano l’esistenza. In breve un toro disegnato da Picasso è parente più stretto di un toro, vero, d’Altamira che un toro dipinto da Goya. La stessa esperienza di Klee è remota e primordiale. Pensiamo all’assoluta ignoranza che c’era nei confronti delle culture orientali, alla mancanza di considerazione verso le fonti popolari che ora son diventate linfa vitale. Citiamo pure la scultura africana in rapporto agli esordi del cubismo.

La crisi

«In un mondo qual è il nostro, diventato più piccolo e intimo, il Vietnam non è più lontano della Calabria. Accogliere gli ideogrammi di ogni linguaggio è molto importante per il futuro. In funzione del linguaggio di domani. E in questo la pittura precede forse di qualche decennio le altre attività. Si parla tanto, oggi, di crisi. Vorrei sapere in quale tempo non ci sia stata crisi nel mondo. Da Budda a Cristo, dal mondo greco al mondo romano. Fino a ieri dicevano che la Chiesa era un corpo inerte. Ma con papa Giovanni e con papa Paolo è diventata qualcosa di molto vitale. I grandi cicli metafisici si concludono come le arcate di un ponte. Finita un’arcata, ne comincia un’altra. Io non so, non posso sapere perché non sono cinese, ma vorrei conoscere come viene inteso in Cina il passaggio dal mondo del Tao al mondo leniniano. È inevitabile che un marxismo cinese sia inibito da 2500 anni di educazione Tao. Come per noi è impossibile disfarci dell’educazione che ci deriva dai testi biblici ed evangelici, ce la portiamo nel sangue. Bisogna portare tutto un passato alla ribalta dell’attuale, dell’oggi, del presente. Ma non è cancellando il passato che si può creare il presente.

Gli amici

«Che cosa dicono gli amici pittori non mi interessa affatto, non c’è più possibilità di colloquio con loro perché sono diventati dei robot. Salvo eccezioni che confermano la regola. Sono stato molto amico di De Chirico, un tempo abitavamo negli stessi alberghi per stare insieme. Oggi lo considero come l’Altare della Patria, una montagna di marmo. Purtroppo, l’usura della vita moderna trasforma questi grandi artisti in “casi” incredibili, in “soggetti” che vivono in perenne stato di ansietà. A De Chirico e a Chagall pare che gli manchi il terreno sotto i piedi mentre sono sempre vissuti da ricchi. Siamo all’opposto di Van Gogh, o di Rembrandt, che alla fine della carriera si permise il lusso di posare come modello per altri pittori. No, non c’è motivo di incontrarli. Parlare di che cosa? Ognuno di loro è un’azienda privata che mantiene il suo segreto professionale. Ho seguito invece e seguo con interesse i pittori in divenire. Dova, il povero Crippa e Baj a Milano, Guido Biasi. Stimo molto Attardi, e Vacchi e Cremonini. Sono amico di Margonari e di Pozzati, di tanti altri. L’ambiente italiano è veramente vasto; ovunque c’è gente di valore, che lavora con impegno, non di rado in condizioni disagevoli. L’arte, da noi, non è lingua morta»

AL LAVORO SONO UNA LOCOMOTIVA

« Mi alzo tardi perché sono un nottambulo », dice il grande pittore « ma se decido di lavorare vado avanti anche per dodici ore senza fermarmi » – Dalla quotidiana partita a scopone al “tifo” per la “Ternana” – « L’arte sta attraversando un periodo assurdo, ma ci sono giovani di valore » – « La guerra non mi ha fatto perdere la fiducia nell’uomo » – Il giudizio di alcuni famosi poeti sulla straordinaria personalità dell’artista

Roma, ottobre

L’appartamento di Corrado Cagli ha qualcosa di misterioso, innanzitutto per le stupende statue orientali ed africane, che se ne stanno enigmatiche e solenni sui tavoli, in nicchie ricavate nelle librerie, o qua e là per le stanze. Mentre aspetto, ho modo di osservare che la biblioteca di Cagli è ricchissima di libri d’arte, di testi letterari e filosofici italiani, inglesi e francesi. Su un tavolo è posato un libro scritto in greco, aperto, mentre a una parete, in una rozza cornice, è appeso il disegno di un bambino, quasi certamente delle elementari, che ha scritto anche il titolo della sua vivace e sghilemba opera: “Piramide Sestia”. Oltre alle statue, che nella penombra continuano le loro insistenti meditazioni (Cagli mi dirà sorridendo: « Forse lei crederà che io mi sia convertito al Buddismo, ma non è vero »), si scorgono magnifici vasi greci ed etruschi. Nell’insieme ho quasi l’impressione di trovarmi nella casa di uno scrittore, dato che non ho mai visto in quelle di altri artisti tanti volumi, e scelti così bene.

Ho incontrato Corrado Cagli diverse volte, l’ho anche intervistato, ma mi ha sempre messo soggezione: per il ricordo della sua bravura leonardesca, per la sua intelligenza e cultura, e anche per il suo viso, che richiama quello prepotente e austero del Bartolomeo Colleoni modellato dal Verrocchio per Venezia: anche gli occhi sono gli stessi, burberi, severi, a volte sdegnosi. Se poi mi metto a guardare il quadro intitolato “Carnevalito” appeso a una parete, e che Cagli ha realizzato con il sistema della carta spiegazzata (cioè riuscendo a ottenere sulla tela, con la pittura a spruzzo, gli effetti delle carte accartocciate e poi ridistese), allora la soggezione, diventa sgomento, perché mi sembra addirittura mostruosa l’abilità con cui egli riesce a fare di simili trovate un’opera d’arte (ma poi egli mi dimostrerà gentilmente che si tratta di cosa assai facile, almeno per lui).

Ma ecco arrivare Cagli. Indossa pantaloni scuri e una maglietta scura anch’essa (per fare le fotografie si metterà poi una camicia bianca). Capisco dal modo con cui mi saluta, che è “in buona”, anche se noto nel suo viso un che di melanconico, quasi di remissivo, che mi porta ad osservarlo in silenzio, e con una curiosità senza risposta, mentre sorseggia lentissimamente un bicchiere di tè, e poi mentre fuma. Ripenso a una frase letta anni fa: “Se c’è in Italia un pittore di genio, questo è Corrado Cagli”, e mi chiedo: se è vero che Cagli è un genio, come faccio a domandargli a che ora si alza e se gli piace la birra piuttosto del vino? Mi faccio, per orza di cose, coraggio.

Sono le undici e mezzo del mattino, e vedo che lei sta già fumando di gran voglia: non ha paura che le faccia male?

CAGLI. Il tabacco non mi fa male. Fino a qualche tempo fa fumavo cento sigarette al giorno. Poi ebbi una polmonite di origine virale, e ho dovuto limitarmi a due pacchetti al giorno, più o meno. Il tabacco non mi fa male: i medici mi hanno sempre trovato i polmoni puliti come quelli di un bambino. Forse ho un fisico speciale, non so. Fatto sta che proprio con quei medici che, non fumando, mi consigliavano di non fumare, io facevo a gara a chi saliva le scale senza affanno. Io le salivo benissimo, loro dopo poche rampe ansimavano.

Beato lei. Ma il fumo non le toglie l’appetito?

CAGLI. Per niente. Io mangio molto, ma assimilo tutto e non cambio mai peso: da vent’anni sono fermo a sessantadue chilogrammi precisi. Posso mangiare o bere molto, oppure pochissimo: e il peso è sempre quello. E’ un fatto curioso, no? Una volta mi venne una strana forma di singhiozzo che mi obbligò a stare digiuno, o quasi, per venti giorni. Ebbene: anche dopo quellungo digiuno il peso era sempre lo stesso. Già, il singhiozzo è tremendo: il cardinale Lercaro, che ne soffrì, mi diceva che è una delle penitenze fisiche più pesanti e fastidiose.

Si alza presto?

CAGLI. No: sono un famoso nottambulo. Vado a letto molto tardi e mi alzo alle undici. Se però, verso le tre o le quattro di notte, quando torno a casa, ho voglia di lavorare, allora vado avanti anche per dieci o dodici ore di seguito, senza interruzione.

Fumando, e bevendo tè.

CAGLI. Fumando, naturalmente, e bevendo tè. Di notte per lo più disegno, ma a volte mi capita anche di aspettare l’alba leggendo.

È vero che lei disegna anche mentre telefona, e che alcune idee, come ad esempio quelle per certi suoi disegni a inchiostro su carta riso, le sono venute proprio mentre telefonava?

CAGLI. Così dice la leggenda, che del resto non ho motivi per smentire, dato che di idee ne ho molte e in qualunque luogo.

Lo so: lei è un vulcano di idee, che realizza con la grazia di un Orfeo. Ma ora mi dica come trascorre il pomeriggio e la sera.

CAGLI. Generalmente il pomeriggio lo passo in studio a dipingere; poi vado a cena fuori, in una trattoria qui vicino. Spesso mio compagno di tavola è Helenio Herrera, sì, l’allenatore, che abita da queste parti.

E che cosa le piace di più, in fatto di cucina?

CAGLI. Preferisco le cose del posto in cui mi trovo: risotto e cassöla a Milano, pesce a Taormina eccetera. Quanto al bere, bevo abbastanza se il clima è freddo, ma quasi niente se fa caldo. Per i liquori, vado a cicli di settimane o mesi: per un periodo vodka, per un periodo whisky. Però non sono un bevitore.

E dopo cena?

CAGLI. E’ per me un momento importante, perché mi metto a giocare a scopone con gli amici o i clienti della trattoria. A me piace molto fare la vita di quartiere: non voglio cioè sentirmi sperduto nella città. E i miei quartieri sono l’Aventino, il Testaccio, l’Ostiense.

E al cinema va spesso?

CAGLI. Molto raramente. Direi che il cinema mi piace più farlo che vederlo. Ho collaborato per la parte scenografica a diversi film. Per esempio, La Bibbia di John Ruston, per il quale ideai l’albero del bene e del male e la torre di Babele.

Lei ha lavorato molto anche per il balletto.

CAGLI. Sì, incominciai in America, con Balanchine. Poi ho fatto scene e costumi per Tancredi di Rossini al Maggio musicale fiorentino, per Macbeth di Block e per Miniere di zolfo di Bennet alla Scala, per Marsia di Dallapiccola all’Opera di Roma, per Estri di Petrassi a Spoleto: tanto per citare qualche titolo.

E così lei, dopo tanti lampi ed estri, la sera si rilassa giocando a scopone, e magari vince sempre.

CAGLI: Spesso.

Lo sport le piace?

CAGtI. Sono un appassionato di calcio e un sostenitore sfegatato della “Ternana”, che considero la mia squadra. Da giovane amavo molto il nuoto. Ricordo che andavo a nuotare nel Tevere, con Capogrossi e altri; e il povero Capogrossi temeva sempre di prendersi il raffreddore: aveva trent’anni e sembrava già vecchio. È sempre stato uguale.

A proposito di Capogrossi: è vero che fu lei a suggerirgli l’idea di quel segno a pettine che l’avrebbe reso famoso?

CAGLI. Lo aiutai a superare la crisi in cui si dibatteva, dopo aver deciso di abbandonare la pittura figurativa. Mi portò una decina di tentativi astratti, ed io gli consigliai di insistere su alcuni. Questa la verità.

Frequenta gli altri artisti?

CAGLI. No, non mi interessano. Ne stimo diversi (tra i giovani: Dova, Cremonini, Biasi e Accardi), ma preferisco starmene solo.

Come giudica la situazione dell’arte in Italia?

CAGLI. Stiamo attraversando un periodo assurdo, poiché il mercato dell’arte è diventato una follia, una fonte di guadagno esagerato. L’arte è merce, ormai, per molti pittori e scultori. Mentre è chiaro che anche nell’arte l’asservimento a Mammona porta fatalmente allo scadimento. Non c’è più una forza spirituale e intellettuale, purtroppo. Ci sono ragioni di denaro, non di poesia.

Quale considera, Cagli, l’avvenimento più importante della sua vita?

CAGLI. La guerra. A causa delle leggi razziali, io dovetti emigrare prima a Parigi, poi in America. Nel 1941 mi arruolai come volontario nell’esercito americano, e ritornai in Europa. Con un reparto d’artiglieria partecipai a cinque campagne, in Normandia, in Belgio, in Germania. Andai a Buchenwald …

Fu allora che eseguì la sua serie di disegni di prigionieri e moribondi?

CAGLI. Sì. Vidi migliaia di corpi torturati e disfatti sul piazzale del Lager. Uno spettacolo terrificante: che tuttavia non distrusse in me la speranza, la fiducia nell’uomo, nella cultura.

A proposito di cultura: lei è uno dei pochi grandi artisti italiani che cercano la poesia (e forse la verità) mediante lo studio, oltreché attraverso l’arte. Studio della letteratura, della filosofia, della scienza (si dice che lei abbia compiuto anche esperimenti di laboratorio); ebbene, come ha cominciato a farsi una cultura?

CAGLI. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia colta: mio padre era professore, mia madre (una fiorentina, si chiamava Ada della Pergola) scriveva. Massimo Bontemperti era mio zio e padrino. Intorno ai dieci anni cominciai a conoscere tutti o quasi gli scrittori e gli artisti importanti. Feci poi il liceo e frequentai l’Accademia. Ma l’arte mi aveva attratto fin da piccolo: ricordo che già à quattro anni facevo dei collages, aiutato da una donna di servizio.

Mi scusi, Cagli: so che ora lei ha da fare, e che perciò devo andarmene. Prima però vorrei che mi desse una definizione di se stesso.

CAGLI. Volentieri: sono una locomotiva. 

Strano. Come? So che lei è un lavoratore accanito: però “mago”, sarebbe più esatto e più bello.

CAGLI. No: la magia non c’entra. E’ più esatto dire che sono una locomotiva.

Certo, da questa intervista traspare solo una minima parte della complessa personalità di Corrado Cagli; il resto essendo poesia e mistero: un mistero che ha sempre incuriosito non solo i critici, ma anche poeti e scrittori. Come Ungaretti, il quale scrisse: “Ho conosciuto Cagli molto presto, quando era un ragazzetto, e ne spiego subito il perché: perché Bontempelli, l’indimenticabile scrittore, astratto e arguto, tutto sottile perizia nel rigore e nella levità della sua prosa, era zio di Cagli, e mio caro amico. Cagli era allora d’aspetto quasi com’è oggi, gli anni passano certo anche per lui, ma lasciandogli quasi invisibile la traccia dei loro guasti.

“Somiglia a Voltaire, come qualcuno ha detto. Aveva già lo sguardo pensoso, pieno di memorie, introspettivo all’eccesso come uno dalla già lunga esperienza. A v’ent’anni era com’è oggi, antico e giovanissimo, così nel fisico come nell’animo. Ci sorprende di continuo, di continuo si rinnova; e, nella sua arte, per esempio, sempre rimane quello che sino dal primo momento si era proposto d’essere: un precursore che, per riconoscersi, per capirsi, fruga nella tradizione, la nostra, quella d’altri popoli, quella di gente barbara o civile, quella della preistoria. L’ho visto sempre tutto nodi, nodoso il viso, nodose le mani, un po’ curvo perché flessibile di corporafura e scattante come un giunco. Parla a voce sommessa, come borbottando d’essere condannato a dipanare le intuizioni e le riflessioni sul suo lavoro da proseguire, che sono tante, troppe, che non cessano di accavallarsi e d’intrecciarsi nella sua mente”.

Da parte sua, Aldo Palazzeschi, presentando una mostra di sculture di Cagli, scriveva: “Cagli è l’artista che meglio mi fa sentire, e con maggiore profondità, il dramma dell’arte figurativa contemporanea.

E niente retorica, così facile e tentatrice in un’epoca di evoluzioni come la nostra. E se anche domani facesse della retorica (e per retorica intendo soprattutto opera illustrativa), potrebbe anche farlo: sarebbe per rivelarne il segreto, liberandosi e liberandovi da quella. È lui e basta. Giunto in piena maturità, pervenuto l’uomo a una pacata serenità e ad una dolcezza che per farmi intendere chiamerò leopardiana, Corrado Cagli presenta oggi al pubblico per la prima volta la sua scultura, che è frutto di non lieve e rapido ripensamento, che non può sfuggire a chi ha con le cose dell’arte qualche dimestichezza, con una tecnica e una materia che esprimono così bene, e al tempo stesso, quanto la forza dei secoli ha saputo accumulare nel campo della scultura e la malinconica precarietà e fragilità della vita contemporanea”.

E Raffaele Carrieri: “Era un piccolo profeta al comando di un gruppetto di ragazzi che esercitava la pittura. Metteva anche un certo fanatismo in ogni gesto e parola: un fanatismo illeggibile al primo incontro. Dovunque si trovasse faceva sommossa. E questo gli è rimasto… Una natura ricca assillante e contraddittoria, assai difficile da catalogare. Cagli si presta poco a essere riassunto in una formula. La sua libertà ad oltranza lo tiene fuori dagli schieramenti automatici, dalle idee fatte, dai chimismi estetici. Spregiudicato al massimo e libero da qualsiasi vincolo di sudditanza condizionata, è un uomo fedele ai principi e agli ideali. Un solista inconfondibile in mezzo a un corpo orchestrale fra i più mutevoli. I suoi attacchi, le sue pause, le sue riprese non cambiano e non assimilano il tono generale. Quando meno te lo aspetti cambia strumento e timbro, partitura e orchestra. La direzione unica e i semafori mal si addicono a uno spirito intollerante come il suo, affamato di sé e sempre in orgasmo per ciò che può estrarre: e moltiplicare”.

Ed infine Alfonso Gatto, a proposito di Cagli disegnatore: “Il disegno è anche un modo di scegliere le immagini del mondo, a significato della parte migliore del mondo stesso, o anche di accusare la parte peggiore del mondo stesso. E credo che Cagli, pur nella purezza addirittura eroica, alle volte, del segno, nella qualità ostinata e pura dell’immagine, abbia approfondito la sua ricerca in questa scelta o in questa denuncia delle cose del mondo, ed è questo che lo fa essere stranamente partecipe della gloria delle grandi età del disegno e lo fa anche soprattutto testimone, in questi nostri tempi così duri, così commoventi e anche così patetici, della ricerca umana di ogni giorno”.

Testimonianze di poeti (Rafael Alberti in un poema ha definito Cagli “claro pintor de fàbulas“), appassionate e tese a scoprire il segreto di questo incredibile artista che, sempre con autorità e abilità prodigiosa, passa dal figurativo all’astratto, dall’affresco ai colori acrilici, dall’encausto all’incisione, dall’arazzo allo smalto: sempre precedendo gli altri, sempre restando profeta e ricercatore; con controllata rabbia, con intelligenza acutissima. Un segreto che resta tale, forse, anche per lo stesso Cagli: che ho visto camminare, con in mano un bicchiere di tè e tra le dita una sigaretta, in mezzo alle migliaia di volumi della sua biblioteca, sotto gli sguardi immoti ed enigmatici delle divinità indiane: con sul volto (o almeno così mi è sembrato) l’ombra di una profonda e strana malinconia che, pur non facendosi disperazione, è forse una delle molle segrete della sua insaziabile ricerca, della sua arte straordinaria ed arcana.

La vasta cultura, il raffinato gusto collezionistico, le indiscusse qualità di scrittore e la polivalenza degli interessi artistici (dalla pittura figurativa all’astrattismo, dalla scultura alla arazzeria) fanno di Corrado Cagli, protagonista di primo piano della scena culturale romana, uno degli artisti contemporanei dotati di più viva personalità.

Come spiega che tutto sommato nelle numerose monografie a Lei dedicate le notizie sulla Sua vita sono in fondo poche?

Cosa dovrei raccontare? Che sono nato in· Ancona nel 1910, per l’ennesima volta? La mia vita momento per momento? No, a me l’Io interessa veramente poco. Rifuggo dallo spettacolo, dall’esibizionismo.

Quali momenti considera fondamentali per la sua formazione?

Posso dire che ha contato molto, specie nei primi anni, mia madre. Era scrittrice, molto legata a Vamba (Luigi Bertelli) e a Giuseppe Fanciulli. Era stata allieva di Severino Ferrari e per il disegno di Telemaco Signorini. Ho cominciato a dipingere quando avevo quattro anni e ho trovato un appoggio in mia madre. Era scrittrice per ragazzi e si firmava, come pseudonimo, Fiducia.

Era figlio unico?

Ero il quarto di cinque fratelli.

All’età di cinque anni Lei si trasferiva a Roma con la famiglia. Seguiva studi classici e poi l’Accademia di Belle Arti: è stata una esperienza importante?

No, niente. Ad esempio i compagni di corso non me li ricordo. Come insegnante è stato importante il piemontese Paolo Paschetto, che mi era stato maestro fin da piccolo e che ho ritrovato al Liceo Artistico dell’Accademia. Paschetto da buon valdese era antifascista e quindi mi ha insegnato ad aprire gli occhi veramente in tempo. Ma per tutto il resto della mia formazione l’Accademia non ha contato niente.

Quali fatti sono stati invece determinanti?

Quando avevo dodici anni già conoscevo Savinio e frequentavo l’ambiente del “Bragaglia Fuori Commercio”, un teatro espressionista d’avanguardia di allora, dove facevano anche mostre e lì ho visto i primi de Chirico. In quegli anni formativi, fra il ’22 e il ’28, a Roma accadevano molte cose che non erano provinciali e questo aiutava la mia formazione. A diciotto anni sono andato in Umbria e mi sono dedicato alla ceramica e alla pittura murale. Ho fatto affreschi, tempere grasse e magre. Quel periodo in provincia è stato per me decisivo e me ne sono trovato avvantaggiato in seguito.

In che senso?

Per esempio nel 1933. In quella Triennale di Milano quando Sironi chiamò una trentina di pittori per lavorare, notai una cosa: che quei maestri si trovavano alla loro prima esperienza murale. Io invece ero all’ottava. Tanto che chiesi il permesso a Sironi di lavorare sul muro inventando la parete senza bozzetto e senza cartone. Una certa influenza di Piero della Francesca è avvertibile nella parete che ho fatto alla Triennale di Milano del 1933 e nel 1936 nella “Battaglia di San Martino” si avvertirà invece un mio maggiore interesse per Paolo Uccello. Vede come si sente il peso di quegli anni passati in Umbria.

Che peso ha avuto nella sua formazione Massimo Bontempelli, del quale Lei era nipote?

Da ragazzo, Bontempelli è stato per me quello che Erasmo da Rotterdam è stato per Holbein giovane. Un essere luminoso, di una intelligenza superiore alla volgarità del fascismo dilagante. Massimo stabiliva sempre una grande misura, sia come saggista che come sofista. Nella sua umiltà era sempre un grande caposcuola.

Come si spiega il silenzio di questi anni nei confronti di Bontempelli?

Perché oggi si parla molto della gente più volgare. Oggi va di moda la volgarità come genere di consumo e quindi certi valori vengono posti in oblio per un determinato calcolo.

A quando risale la Sua amicizia con Carrà e de Chirico?

Alla Triennale del 1933. Con Martini avevo già fatto amicizia due anni prima, mentre i primi incontri con Morandi e de Pisis sono del 1935. In verità quello che mi ha sempre incoraggiato nel lavoro è stata la stima che mi hanno dimostrato questi predecessori. Mi è caro ricordare ancora che Morandi venne a cercarmi, mentre mi preparavo alla Quadriennale del 1935. Da quel tempo ho sempre mantenuto ottimi rapporti di amicizia con questi maestri e non so come abbiano inventato questa storia attribuita alla nostra generazione di mezzo, del reagire contro il ‘900, perché io non avrei mai, per esempio, condotto un’azione contraria ad un pittore stimabile e ammirevole come Mario Sironi. Oltretutto c’erano dei rapporti di fiducia e di stima che scendevano da loro verso di noi. Tant’è vero che molti di noi si sono affermati giovanissimi e l’abbiamo potuto fare proprio in virtù all’apertura mentale di quella generazione.

Da chi era formato il gruppo chiamato Scuola Romana?

Da Cagli, Capogrossi, Cavalli e Pirandello, ma Pirandello ne uscì molto rapidamente. In seguito noi abbiamo cercato di riunire intorno alla Galleria Cometa di Roma quelli che noi stimavamo allora di altri ambienti. Non era una cerchia chiusa. Eravamo ostili, sì, nei confronti di Milano, per il fatto che era a quel tempo capitale dell’arte come organizzazione mercantile: tendeva a strumentalizzare valori e significati. Mentre invece a Roma era già in atto una spinta di fronda.  Già nel 1935 io personalmente registravo a mio danno l’abuso di potere di ministri fascisti che ordinarono la distruzione delle mie opere murali come a Castel dei Cesari per ordine del ministro Renato Ricci. Poco più tardi a cavallo del 1937-38 Galeazzo Ciano tenta di far distruggere i miei murali per il padiglione italiano di Parigi nel 1937, riuscendoci soltanto in parte.

Alla fine del 1938, a causa delle persecuzioni razziali fasciste, Lei si trasferisce a Parigi e nel 1940 a New York. Quando ritorna in Italia?

Nel 1948.

L’essere perseguitato per motivi politici e razziali negli anni della guerra ha alterato la Sua visione illuministica della vita?

Quella che lei chiama la mia visione illuministica della vita non ha subito alterazioni. E ben venga comunque la persecuzione se questa ci può arricchire umanamente e se ci porta ad amare il nostro prossimo ed affinare quindi noi stessi! Bisogna che il singolo sia sufficientemente forte per intendere che persecuzione e avversione servono a portare più in alto il senso della nostra vita. Quella che noi chiamiamo con un termine molto generico persecuzione ci può arricchire umanamente ed aiutare a conoscere più profondamente l’uomo anche in senso positivo.

Perché negli anni ’40 ha preferito partecipare alla seconda guerra mondiale nell’esercito americano, quando altri intellettuali esiliati preferirono rimanere negli Stati Uniti ad attendere la fine del conflitto?

Mi urgeva partecipare alla lotta. Mi sentivo impegnato, non potevo quindi immaginare me stesso alienato in California a dipingere. E poi dipingere che? Per me l’arte prima di essere un fatto estetico, è un fatto morale. Ci sono dei momenti in cui la posta in ballo è tale che è meglio tradire la propria vocazione e partecipare alle vicende dei nostri compagni di sorte. Mi urgeva tornare a vivere le vicende d’Europa.

È stata un’esperienza importante?

Sì, e molto intensa, però confesso che quando sono partito volontario non pensavo che mi sarei occupato di artiglieria per più di sei anni. Pensavo di cavarmela prima.

Quanti anni aveva?

Trenta.

In quel periodo ha smesso di lavorare?

Certo, la sola cosa che ho fatto in quegli anni di guerra sono stati dei disegni dal vero dei campi di concentramento, nei quali ci imbattemmo per caso.

Prima non ne sapeva nulla?

No, niente. Provai un trauma e sentii la necessità di fermare nella memoria, disegnando, il senso di quella inaudita tragedia. Questi disegni furono pubblicati in una cartella da P. M. Bardi, subito dopo la guerra.

Chi ricorda al Suo rientro in Italia?

Soprattutto Mirko, con il quale ho ripreso un raro sodalizio interrotto, poi Bontempelli e Savinio, Guttuso e Trombadori e tanti altri. Importante per me è stato anche ritrovare Carlo Levi, figura che già da sola potrebbe significare quanto c’è di valido e di buono nel campo dell’amicizia. Dei collaboratori e allievi di un tempo che avevano subito le usure del fascismo ci sono da registrare soltanto degli incredibili voltafaccia. Ma non vale la pena che se ne tenga conto.

Lei ha aderito al Partito Comunista Italiano?

No. Di volta in volta e a ragion veduta ho fatto cose nell’ambito del Partito Comunista a sostegno di quella che io consideravo la più forte opposizione organizzata e militante, perché valuto il Partito più come funzione critica che come movimento innovatore.

Picasso, che Lei ha conosciuto, ha avuto una particolare influenza sulla sua opera?

Per me personalmente Picasso ha avuto un peso scarso, Picasso non fa parte del mio Parnaso. Se io domani fossi chiamato a dipingere il Parnaso come è accaduto a Raffaello, Picasso non rientrerebbe nelle mie scelte, probabilmente perché la sua figura dovrebbe lasciare il campo a Paul Klee, come simbolo. Nei confronti di Picasso, Klee appare più interiore, più puro, mai corrotto dalla macchinazione mercantile, restandone immune come già il grande van Gogh. Picasso può anche essere diventato il padrone del vapore e aver strumentalizzato i mercanti che una volta lo amministravano, ma questo dal punto di vista dei significati morali non conta. Più emblematico, più indicativo per quello che vado dicendo è un Rembrandt che si consente di arrivare a delle grandi ricchezze a trent’anni per poi finire la vita praticamente in miseria, ma occupato a dipingere, nell’incomprensione totale, il “Figliol Prodigo”.

E Strawinsky?

L’ho incontrato quando avevo venticinque anni e da allora la sua amicizia mi ha sempre illuminato. Oltre alla grande ammirazione che avevo per lui come compositore, mi sono anche ispirato al suo modo di lavoro. Malgrado le diversità delle discipline credo di aver imparato più da Strawinsky che da Picasso.

Quali pittori italiani moderni stima di più?

Sironi e de Pisis, Morandi e Carrà e forse al di sopra degli altri de Chirico. Di lui ho dei ricordi molto belli. Ne ammiro lo stupore e il mistero.

Quali consigli rivolgerebbe oggi ai collezionisti?

Ai collezionisti di oggi non consiglio di collezionare i valori già storicizzati e per lo meno eccessivamente affermati. Darei loro un consiglio di base: si orientino verso quei valori che si stanno affermando, che stanno venendo fuori degli artisti più giovani rispetto allo stesso de Chirico. Posso fare qualche nome? Dalla scultura di Attardi alla pittura di Vacchi, di Nuvolo, di Fieschi ed altri perché il vivaio italiano è molto ricco ed esteso. Chi vuol collezionare de Chirico non potrà mai trovare capolavori di de Chirico, troverà variazioni o ripetizioni o cose stanche. Chi vuole collezionare, oggi, cominciando da de Pisis, Rosai, Sironi, tutti pittori importantissimi, s’imbatterà nel labirinto dei falsi. Si orienti quindi il collezionista con i gusti del cacciatore e vada alla ricerca dei nuovi valori da individuare.

Ci sono dei Cagli falsi?

No. Non c’è mai stata una vera organizzazione di falsari. Non mi è mai capitato di doverlo riscontrare.

Le piace vivere a Roma?

Roma è una città straordinaria, che si va negli ultimi tempi deteriorando, rovinata da questo fenomeno del traffico, ma resta sempre Roma. D’altra parte io vivo una vita di quartiere e mi sono disabituato dall’andare in centro, preferisco incontrare i miei amici qui dove abito tra l’Aventino e Testaccio.

Recentemente c’è stato un Suo incontro con Paolo VI. Che impressione Le ha fatto?

Una grande impressione. Durante l’inaugurazione delle stanze vaticane d’arte contemporanea, ho incontrato per la prima volta Paolo VI e mi ha impressionato per la sua straordinaria umanità.

Di Lei si parla come di un maestro del rinascimento, circondato da discepoli.

Sì, ho avuto tanti allievi, da Afro a Sartoris, da Donnini ad Angelo Canevari e tanti altri, ma quasi tutti li ho persi di vista. Del resto la scuola serve a poco dal punto di vista del maestro. Serve ai discepoli per apprendere. Qualche volta si verificano i casi di maestri capaci di tirar fuori dal magma degli allievi quell’elemento col quale può stabilire un lungo sodalizio, che diventa essenziale, come il caso di Leonardo da Vinci e Francesco Melzi, oppure di Michelangelo e Tomaso Cavalieri.

E di Cagli con … ?

… nel mio caso dovrei dare ampio credito a Francesco Muzzi, mio braccio destro nel dipingere, eccellente mano d’aiuto. È con me da venticinque anni e conosce più o meno tutti i mezzi del mio mestiere. Dirò per inciso che un maestro che si isola nel suo campo e che non ha una vita diciamo di tipo familiare, finisce suo malgrado col ritrovarsi un capo tribù quando ha avuto molti allievi.

La Sua produzione pittorica si può dividere in periodi?

No, e nemmeno la ricerca tecnica. Perché l’ampiezza della mia ricerca fa sì che non si può isolare un periodo da un altro. Ci sono delle interferenze continue. “Le Metamorfosi” ad esempio le ho dipinte in vari periodi parallelamente a delle ricerche opposte. Così pure i principi modulari fanno parte di un certo mio andamento verso l’automatismo analitico che abbandono e riprendo di volta in volta nel tempo.

Lavora spesso nel Suo studio di Taormina? Come mai a Taormina?

Ma potrei averlo anche altrove. La Sicilia, comunque, mi ha portato grandi risultati : gli interessi che ho avuto per le lotte politiche di quel popolo mi hanno ispirato i disegni sulla strage di Portella della Ginestra. Anche l’eruzione dell’Etna mi ha ispirato i periodi dei “Vulcani”. Essendo legato a quel paese e a quella gente si è più portati a captare i loro motivi, ad approfondire le ragioni della loro vita.

Nell’attuale società di massa, cosa può ancora tramandare l’artista?

Cosa vorremmo tramandare come testimoni: un postulato estetico? Sarebbe ridicolo e insensato: un nostro proposito potrebbe essere semmai di tramandare un impegno umano.

Decidere di incontrare Corrado Cagli significa accettare un compito fra i più difficili che ad uno della mia generazione (i nati nel ’50) venga affidato. Quasi come entrare in una sorta di labirinto metallico, in un andirivieni intricato in cui è facile perdere l’orientamento. E le mie conoscenze non contemplano certo un’incantata Arianna – moderna compagna di viaggio – che mi consenta di districarmi meglio nel dedalo, nel gioco nascosto delle cose.

L’appuntamento con il maestro Cagli è per le dodici e trenta di un martedì di fine settembre, a Roma.

Mi riceve il suo segretario. Seduto in uno studio-salotto della sua casa sull’Aventino attendo che Cagli arrivi.

Muzzi (il segretario) mi offre del “porto”. Parliamo della mostra di Jesi. Gli ripeto che l’incontro chiesto con il maestro è anche in dipendenza di quella mostra.

L’attesa di vedere Cagli comparire d’un tratto sulla porta riconduce le parole che Ungaretti scrisse nel febbraio del ‘67 in occasione della personale tenuta alla libreria Rizzoli di Roma e Milano tra l’ottobre e il novembre dello stesso anno:

L’ho visto sempre tutto nodi, nodoso il viso, nodose le mani, un po’ curvo perchè flessibile di corporatura e scattante come un giunco”.

Chiedo a Muzzi se sarà possibile registrare il dialogo tra me e il maestro. “Non credo; comunque attendiamo lui” risponde.

Cagli arriva, impercettibile, curvo, flessibile, nodoso. I tappeti attutiscono il suo passo. Si siede. La stanza è immersa nella penombra. Finestre ed imposte sono chiuse per proteggere l’ambiente.

Non vuole che io metta in funzione “l’infernale macchinetta”.

“Prenda appunti” mi dice. “Tutto è più spontaneo e libero, se detto senza il condizionamento di un’incisione su nastro”.

Non è impresa facile seguire Cagli mentre parla, tallonarne la dialettica, cristallizzarne le intuizioni, le immagini che suscita, le “illuminazioni”; non è impresa facile reggere al ritmo incalzante delle citazioni, dei raffronti, dei rapporti che stabilisce con la storia, con gli eventi.

Sono già nel labirinto, stralunato e insicuro Teseo contro “una delle più affilate, anzi taglienti intelligenze del nostro tempo” (come ha rilevato Carlo Ragghianti nel volume “L’opera di Corrado Cagli” redatto in occasione della mostra a palazzo Strozzi tenutasi dal 15 gennaio a tutto il febbraio del ‘72).

– Maestro, lei è nato ad Ancona nel 1910. Già nel ‘15 se ne è allontanato; portato a Roma dove successivamente ha studiato e frequentato l’accademia di belle arti. Come vede la mostra di palazzo Pianetti-Tesei, una mostra che si è prefissa il compito di stabilire “consuntivi” e “proposte”? Quale il senso, secondo lei, di un avvenimento che possiamo definire come uno fra i più importanti e determinanti di questi ultimi trent’anni di storia marchigiana?

“Innanzi tutto non capisco quale sia il senso dei “consuntivi”. Il secolo è ancora aperto e l’attività degli artisti viventi non è chiusa. Non credo giusto porre dei confini stabiliti. E chi si vuol proporre? I nomi che compaiono nella mostra sono tutti già delle presenze ben delineate, con caratteristiche proprie, con una loro specifica fisionomia. Non ci sono scoperte. Il senso di questo “avvenimento”, come lei lo chiama, credo vada ricercato nel fatto che nelle Marche (come, del resto, anche altrove) si arriva sempre con trent’anni di ritardo. Le Marche, sostanzialmente, hanno una caratteristica primordiale, hanno subìto meno logorio linguistico e, di conseguenza, il loro sviluppo viene più difficilmente a maturazione. Eppoi non legherei a categorie prestabilite uomini e cose”.

Parla con voce sommessa, dando il giusto spazio alle sillabe, dipanando i concetti, muovendo appena le mani, togliendo una sigaretta dal pacchetto, accendendola con calma.

Fuma moltissimo, ma senza rabbia. Con eleganza.

Gli chiedo un “viaggio” a ritroso nel tempo, gli chiedo, di parlarmi dei suoi anni americani, parigini.

“Mi trasferii a Parigi alla fine del ‘38, a causa delle persecuzioni razziaili fasciste. A Parigi c’erano molti amici. Parecchi rientrarono in Italia. lo rimasi. Poi andai in America, a New York. Mi sono arruolato nell’esercito americano partecipando alla seconda guerra mondiale in Normandia, Belgio, Germania. Devo dire che in Germania ho capito una cosa per me molto importante, come artista e, soprattutto, come uomo. Quella gente, tutto sommato, mi faceva un’immensa pena. Li vedevo fare la fila per avere il pane ed erano uomini e donne sofferenti, mutilati, infelicemente vivi. Dopo la guerra sono ritornato a New York per stabilirmi definitivamente nel ‘48 a Roma”.

Seduto di fronte tento di entrare nelle “città invisibili” di Cagli, nelle vittoriniane “città del mondo” rischiando, magari, una rimbaudiana “saison en enter” con il “Mago dei sassi” (1964) arroccato sulla “Torre dei tarocchi” (1966) tra “Totem e falò” ( 1964) nelle “Stanze d’Arlecchino” (1955) con “L’incubo del serpente”.

Questa sorta di surrealistico gioco di parafrasi impone, però, una scelta analitica determinante.

Credo che per accostarsi e capire la pittura di questo maestro del novecento sia necessario concedersi al misterioso “viaggio” nei suoi occhi, tra i miraggi del fuoco e dell’ombra, in quegli occhi affossati nell’orbita, scattanti come cutrettole, pronti a ghermire la preda-immagine, la figura, il taglio di paesaggio.

I disegni ci offrono la misura travolgente della sua capacità di “vedere” oltre la forma pura ed essenziale del soggetto ciò che il soggetto stesso dei suoi studi, del suo interesse, nasconde (o malcela).

“Credo che Cagli abbia tenuto sempre all’erta il suo disegno, sia avvertito del suo pericolo decorativo nell’atto di superarlo con la pittura, sia nell’atto di assumerlo, consapevole della sua indipendenza, per significargli l’invenzione che gli è propria: la linea”. Così tre anni fa Alfonso Gatto, presentando una mostra antologica delle opere grafiche di Cagli.

Sorseggia un tè, mentre mi ascolta parlare. Accende l’ennesima sigaretta, si aggiusta meglio nella poltrona di velluto verde.

– In che misura il fascismo l’ha ostacolatanel suo lavoro?

“II fascismo non mi ha ostacolato, ha semplicemente distrutto le mie opere, come, ad esempio, venti metri quadri della decorazione del vestibolo del padiglione italiano alla esposizione universale di Parigi nel 1937, venti metri che facevano parte di una ben più vasta realizzazione di duecento metri quadri di tempera encaustica che il ministro Ciano diede ordine di distruggere. E non fu la sola opera contro cui si accanirono. Per il resto mi han dato poco fastidio per il fatto che me ne sono andato io dall’ ltalia”.

– Maestro, la nostra regione – le Marche – è ancora legata ad una concezione provincialistica della cultura, chiusa in un asfittico ambiente dove le voci del di fuori vengono attutite, dove i fervori o le furie di una generazione vengono spente o curate come una febbre maligna. Come è possibile, secondo lei, vivere e affermarsi in una delle nostre città dove l’invidia si allaccia al pettegolezzo e la cosiddetta cultura (il potere culturale) è in mano a certi intellettuali che frugano nella polvere piuttosto che prospettare un futuro prossimo?

“lo mi porrei un’altra domanda: come fa  uno a vivere, lavorare ed affermarsi in una metropoli? Ancona, ad esempio, non è la fine del mondo ed un giovane artista può sempre trovare “fuori” il suo terreno. Non si tratta di connotati regionali, ma di trovare un terreno fertile. Prenda Valeriano Trubbiani. Vive e lavora ad Ancona, ma le sue sculture hanno da tempo varcato i confini regionali per inserirsi in una discorso ben più vasto e significativo. Non bisogna aver paura d’essere provinciali solo perchè si vive in provincia. L’importante è lavorare con la piena coscienza dei propri mezzi e delle proprie possibilità. Leopardi pure viveva nell’angusto “natio borgo selvaggio” di Recanati eppure la sua poesia ha tagliato via ogni sorta di confine, sia letterario che temporale. L’uomo, l’artista, trovano la loro massima espressione nelle difficoltà, nel dolore; in questo senso ben vengano anche le persecuzioni che la storia registra”.

Ecco, da ciò si rinviene una delle caratteristiche di Cagli, messa a fuoco dallo stesso Giuseppe Ungaretti: “…nella sua arte, per esempio, sempre rimane quello che sino dal primo momento s’era proposto d’essere, un precursore che, per riconoscersi, per capirsi, fruga nella tradizione, in qualsiasi tradizione, la nostra, quella d’altri popoli, quella di gente barbara o civile, quella della preistoria”.

Un discorso organico sull’opera di questo artista difficilmente decifrabile, strutturalmente complesso e monolitico, comporta, necessariamente, un lavoro capillare di analisi dei quarant’anni di storia che abbiamo alle spalle, di una storia dolorosa, spesso drammatica, dove l’angoscia, l’urlo, l’indugio, l’acquetarsi lento del cuore che batte i suoi aritmici colpi si amalgamano per mutare la fisionomia degli uomini.

Cagli ha lottato contro i propri fantasmi, spazzando via la polvere della cattiva coscienza, uccidendo i demoni del mistero e della paura, oltrepassando l’ombra, iniettandosi antidoti contro i veleni del mondo. Cagli ha contraddistinto (e contraddistingue) un’epoca di furie e trionfi, di delazioni e smacchi, di atrocità e rivalse, dove ogni opera di pittura e scultura diventa, man mano, calcolo, manierismo, scontato sperimentalismo; dove la letteratura risulta, alla fin fine, d’attacco e rasenta i bordi dell’oleografia. Il portato globale del suo lavoro non è qui calcolabile nè noi possiamo sentirci in diritto di valutarlo. Ciò che ci compete (e credo che Cagli sarà d’accordo) è il coraggio di abitare le sue opere, sforzandoci di lacerare le fitte magiie tessute contro la nostra demenza, contro la nostra inerzia. La personalità di Cagli, “destinata a sorprendere sempre, al di là di ogni definizione” (Giuseppe Marchiori nel profilo a lui dedicato e compreso nel catalogo stampato dalle edizioni dell’Astrogallo per la mostra jesina a palazzo Pianetti-Tesei), ci incanta e inquieta per la sua scarnificazione dell’orrido e dell’amoroso, del surreale e del mitologico, di tutta una simbologia metamorfica che coinvolge noi tutti nella commedia “umana” e “dipinta” che in quasi mezzo secolo ha realizzato.

Possiamo solo porci di fronte alla sua statura come epigoni iniziati ad una ricerca di cui lui solo conosce i segreti, le nascoste meraviglie e l’imperfetta letizia.

Dalla stanza in cui siamo è perfino difficile capire se fuori sia ancora giorno. Cagli si alza. Si scusa di dovermi lasciare, ma altri impegni lo vogliono altrove.

In questo preciso momento mi chiedo cosa ho raccolto da quest’uomo che in sè racchiude la sua storia personale e quella di civiltà conosciute, studiate, amate, o solo attraversate, braccato dalla vita, nei quartieri del mondo, come un Orfeo doloroso e gigantesco che divide la sua esistenza propria tra “La veglia e il sonno” (prendendo ancora una volta in prestito un titolo di una sua opera del ‘47), sintetizzando reliquie della memoria cultura, figurazioni oniriche e fluttuazioni dell’inconscio, razionalità e alchimie cromatiche, in virtù di quella “caccia” nelle paludi “della vivente verità senza sosta”.

Fuori del labirinto, alla luce, in una Roma autunnale e così differente da quella lasciata poche ore prima, mi chiedo in che modo (e per quali strade) io posso raggiungere la “coscienza cosmica” di Cagli, in che modo capire il suo prodigioso salto verso l’ignoto, se lui è passato attraverso la cultura occidentale, quella dell’estremo oriente, assorbendo – come ha rilevato Ragghianti – l’arte di civiltà sepolte o “silenti”, dallarte negra a quella preistorica, dagli egizi ai microasiatici, dai tardoromani e bizantini, dai precolombiani ai popoli delle steppe?

Quale Iinguaggio adoperare per un tentativo di “incontro” con questo uomo che ha visto già la morte e il ripugnante organico disfacimento dei campi di Buchenwald, che ha conosciuto la pietà e il dolore taciuto, che ha dipinto il sangue uscito dalla nera carne della terra (i suoi quadri sull’Etna) e abitato le stanze dell’angoscia e del magico?

Quale la mia posizione di fronte a questo eccelso sacerdote della luce, dell’ombra, del colore, dello spazio, delle cosmiche tempeste e dell’amorosa passione, dell’incantesimo e dell’arabesco, del sacro e del profano?

Nei suoi rituali, nelle sue cerimonie Cagli determina una concentrica coscienza di ricerca inarrestabile dove tutte le linee, gli impasti cromatici, le soluzioni encaustiche e le mille altre tecniche da lui inventate, sperimentate, si fondono per dar luogo (e corpo) ad una pittura d’anima e d’urto, ad una pittura di scatenate forze naturali e di Arlecchini agghindati per la festa d’amore, di mitologiche figurazioni e ancestrali simbologie, di motivi cellulari e sepolcrali, museali, teatrali, con i “Demoni di primavera” nell’allegoria di un “Paesaggio marchigiano” o sotto l’abbacinante serpeggiare di uno “Sceol”.

Presentare, in poche righe, Corrado Cagli, o tracciarne un breve profilo, è quanto mai imbarazzante. È disarmante. Cosa dire di un artista di cui si sono occupati diffusamente non solo critici autorevoli ma anche poeti e scrittori di fama internazionale, da Massimo Bontempelli a Giuseppe Ungaretti, da Aldo Palazzeschi ad Alfonso Gatto, da Charles Olson a Rafael Alberti? Cosa dire di un artista che, per oltre quarant’anni, ha rappresentato una presenza implacabilmente nuova, stimolante, imprevedibile, nel panorama delle arti, italiano, europeo e internazionale? Cosa dire di un artista che per oltre quarant’anni ha esplorato forsennatamente non solo ogni possibile ambito della sperimentazione e della espressione artistiche ma altresì ogni possibile ambito della conoscenza? Cosa dire di un artista la cui opera quale pittore, scultore, muralista, incisore, arazziere, mosaicista, ecc. costituisce ormai un patrimonio ingente? Cosa dire di un artista che è stato presentato volta a volta come Orfeo, « Pastore errante », Mago, Alchimista, Demiurgo, Copernico, Profeta? Cosa dire, soprattutto, di un artista la cui attività è ancora ben lungi dal concludersi?

Non si tratta che dire qualcosa del nostro incontro e delle impressioni che ne abbiamo tratte.

Siamo andati a trovare Corrado Cagli in uno dei suoi due studi romani, quello attiguo alla sua abitazione in via della Fonte del Fauno 12, sul viale Aventino. L’altro è al Circo Massimo ed è una specie di lupanare, dove l’artista realizza le sue opere di battaglia. « lo sono molto disordinato. Lavoro parecchio di notte. E quando di notte mi viene voglia di lavorare, me ne vado là, al Circo Massimo. È lì che faccio le cose più grosse ».

A sessantaquattro anni, Corrado Cagli mostra ancora una vitalità sorprendente. Diceva bene nel ‘67 Giuseppe Ungaretti, ricordando il pittore ragazzetto, appena arrivato a Roma dalla nativa Ancona: « Cagli era allora d’aspetto quasi com’è oggi, gli anni passano certo anche per lui, ma lasciandogli quasi invisibile la traccia dei loro guasti… Somiglia a Voltaire, come uno ha detto — « Aveva già lo sguardo pensoso, pieno di memorie, introspettivo all’accesso come uno dalla già lunga esperienza. A vent’anni era com’è oggi, antico e giovanissimo, così nel fisico come nell’animo ». Ciò che più colpisce in lui è lo sguardo: inquieto, sempre inquieto, e inquietante, mobilissimo e profondo, in un viso a un tempo sensitivo e austero, sensibile e rigoroso, perfetto come una sua scultura. Ma non meno colpisce la sua presenza: una presenza alla quale non si sfugge, e che lascia segni nell’interlocutore: per intensità emotiva, densità, profondità, intelligenza, rapidità, bagliore.

L’artista lavora ancora instancabilmente, fumando a rotta di collo e bevendo caffè o té, ma senza che la nicotina o la caffeina lascino tracce in lui. « Ho ancora i polmoni chiari come un bambino », ci dice. E ci mostra l’ultima sua opera: il bozzetto in argento d’un monumento in acciaio inossidabile che è stato installato qualche tempo fa nella Piazza di Göttingen, una cittadina tra Francoforte ed Amburgo, a ricordo della « Notte dei cristalli ». È un modulo triangolare che culmina nella Stella di David: dal di sotto si può vedere questa spirale in fuga all’infinito ma non si può vedere la Stella di David. « Ho voluto evitare », ci dice l’artista, « qualsiasi elemento retorico ».

Parlando del monumento, Corrado Cagli ci ricorda il suo lungo esilio in America, dal ‘38 al ‘48, al quale fu costretto dalle persecuzioni razziali; ma ci ricorda anche che nel 1950 non esitò a restituire la cittadinanza americana. « E non me ne pento », dice. « Già in quegli anni si poteva intuire quello che sarebbe avvenuto. Si potevano preconizzare il fascismo che si sarebbe impossessato dell’America, tutti i Vietnam e tutte le Coree possibili ».

E riandando indietro nel tempo, arriva al 1933, l’anno in cui ha inizio ufficialmente la sua carriera artistica: a poco più di vent’anni sfidava alla Triennale di Milano con un murale, artisti che recavano i nomi di Carrà, De Chirico, Sironi, Severini, Funi… Un esordio clamoroso.

PLAYMEN – Lei è conosciuto come un uomo difficile, scontroso, caustico, amante del calembour e del motto di spirito, della battuta cattiva e talora feroce. Da chi o da che cosa le deriva questa tendenza?

CAGLI – È un gusto che mi viene da mia madre, ch’era fiorentina. Si chiamava Ada della Pergola. Mi piace la battuta, ma riconosco che essa non può prendere il posto del giudizio.

PLAYMEN – Chi ha più influito su di lei nel periodo infantile, sua madre o suo padre?

CAGLI – Mia madre. Mia madre era una scrittrice, scriveva storie per ragazzi sotto lo pseudonimo di « Fiducia », ha scritto una ventina di libri. Mio padre faceva invece il professore. Io mi sono formato nell’età infantile, ma ho lasciato ben presto la casa dei miei genitori per continuare la mia formazione nella valle del Tevere. Nei primi anni, oltre mia madre, le mie grandi guide erano Massimo Bontempelli e Alberto Savino. Massimo non trovava lavoro e s’era adattato ad insegnare in una scuola media di Ancona, dove sposò la sorella di mia madre. Quello familiare era, tuttavia, un ambiente che frequentavo assai poco.

PLAYMEN – Quale ruolo ha avuto la sua vita infantile nel suo destino di artista? È notorio che lei è stato un artista eccezionalmente precoce.

CAGLI – Può sembrare ridicolo dirlo, ma a quattro anni avevo già pubblicato dei collages sul « Corriere dei Piccoli ».

PLAYMEN – Da chi le è derivata questa tendenza all’arte, così straordinariamente precoce?

CAGLI – Era innata. Io facevo dei lavori manuali sin da bambino. Ricordo che li facevo nella camera della nostra cameriera, che si chiamava Agnese. Io ero molto timido, introverso, e poiché la famiglia era numerosa (tre sorelle e due fratelli), tendevo ad isolarmi, a star solo.

PLAYMEN – Non è possibile che questa che lei chiama « tendenza innata » le derivi invece da una tradizione familiare di cui si è perso il ricordo o affondi le radici in fenomeni storico-ambientali diventati col tempo oscuri?

CAGLI – Non ci sono precedenti artistici nella mia famiglia. Nella mia famiglia erano tutti intellettuali. Per me l’arte è artigianato. Gli intellettuali non sanno usare le mani e quindi non sono degli artigiani. C’è una prova sicura per stabilire se uno abbia o no tendenza all’arte: se nell’attaccare un quadro al muro si dà una martellata su una mano, ha più vocazione a fare lo scrittore che il pittore.

PLAYMEN – Lei dovrebbe essere d’accordo con Sigmund Freud e Melanie Klein. Freud e la Klein sostengono che i fondamenti della personalità vengono posti nei primi cinque o sei anni di vita. Lei avrebbe fornito un esempio folgorante di questa teoria.

CAGLI – Secondo me, i fondamenti della personalità vengono posti anche prima, a tre o quattro anni. Io frequento molto i bambini e me ne accorgo. È strano che i genitori non vedano nulla di tutto questo. Secondo me, i bambini sono geniali sino a cinque anni, dopodiché incomincia la decadenza. Fino a quell’età sono primordiali, sono se stessi. Poi li mandano all’asilo e tutto cambia. Si vergognano degli altri, vogliono essere come gli altri; non sono più se stessi, ossia diversi. All’asilo ha inizio il processo di decadenza. La scuola fa il resto. La scuola — asilo, elementari, ginnasio, ecc. — è una macchina di distruzione diabolica. Una macchina di castrazione.

PLAYMEN – È una teoria molto affascinante, e fors’anche vera. Ma se fosse vera, o totalmente vera, se ne potrebbe trarre una conclusione non molto piacevole, neppure per lei. Potremmo dire che anche lei ha subìto un processo di decadenza dall’infanzia in poi, ossia da quando faceva i primi collages o i primi lavori manuali di tipo artistico in poi…

CAGLI – No, perché, io sto tornando gradualmente alle fonti infantili. Prima di noi, questo processo a ritroso verso le fonti infantili l’ha percorso Paul Klee. Bisogna sempre tornare alle prime intenzioni, alle tendenze primarie infantili, per non essere distratti, o distrutti, dall’ambiente, che tende a fagocitarci.

PLAYMEN – Lei ha mai sofferto, a livello conscio o inconscio, di quello che Freud chiama complesso di Edipo, ossia del desiderio di sostituirsi a suo padre e di possedere sua madre? Lei ha detto che sua madre ha influito su di lei molto più che non suo padre.

CAGLI – Non credo. In ogni caso, non me ne sono mai accorto. Se in me ci sono stati conflitti di questo tipo, io non li ho vissuti. Io avevo buoni rapporti con tutta la famiglia, ma, come ho detto, ho tagliato i cordoni ombelicali molto presto.

PLAYMEN – Ma si sentiva, comunque, spinto più verso sua madre che verso suo padre?

CAGLI – Non esattamente. Io prima mi staccavo, poi stabilivo rapporti di amicizia. Questo è avvenuto sia con mio padre che con mia madre. Non c’erano problemi di gelosia. Neppure con mio fratello, che aveva sette anni più di me e mi aveva venduto per un piatto di lenticchie, facendo carriera in marina, il maggiorascato…

PLAYMEN – Dal momento che ama molto i bambini, non sente il rimpianto della famiglia?

CAGLI – Io amo molto i bambini, ma non sento alcun rimpianto per la famiglia, anzi non ho mai pensato alla famiglia. Non ho alcun bisogno di una di quelle signore che magari diventano le vedove di Tizio o di Caio. Vocazione o no, l’arte è come una religione. Conviene rifiutare la famiglia, ma si finisce col diventare capi-tribù.

PLAYMEN – Ma c’è anche una visione della donna come ispiratrice, fonte di stimoli poetici e sprone all’immaginazione. È un mito antico.

CAGLI – Io amo molto il Cattolicesimo,in senso spirituale, ma Cristo era un misogino. Quando Pietro e Paolo son venuti a Roma hanno tradito Cristo inventando la Madonna. Cristo era l’ultimo dei profeti e quindi aveva una concezione patriarcale. Platone escludeva dai convivi la donna perché non era portata al raziocinio filosofico. Il femminile è puerile. Noi siamo organicamente diversi, e quindi le vocazioni sono diverse. Siamo opposti e, assieme, complementari.

PLAYMEN – Anche l’antropologa Margaret Mead sostiene che siamo opposti e complementari, ma talune posizioni, come quelle che fanno capo a Platone, oggi non sono più sostenibili. Le ricerche più recenti hanno portato alla conclusione netta che le donne non sono affatto intellettualmente meno dotate dell’uomo.

CAGLI – Noi viviamo sotto l’influenza delle macchie solari, le donne sotto l’influenza del magnete della Luna. Abbiamo frequenze diverse. Noi siamo portati ad adoperare lo spazio, le donne il tempo. Le grandi poetesse adoperano il tempo. Ma, dalle origini ai nostri giorni, non ricordo una sola grande pittrice, una sola grande scultrice, una sola grande architetto. San Pietro e San Paolo hanno inventato il mito della Madonna perché gli italici, e specialmente i campani, avevano il culto della Mater Matuta (Madre Feconda), che veniva rappresentata sempre nell’atto di partorire.

PLAYMEN – Allora San Pietro e San Paolo, sono stati dei grandi politici?

CAGLI – Sì, come Lenin. Hanno tenuto conto delle necessità popolari. Ma, soprattutto, hanno avuto la geniale intuizione di venire a Roma: l’impero romano si stava sfaldando e quindi c’era il terreno adatto per imporre il Cristianesimo.

PLAYMEN – Quello della madre non è soltanto un mito italico o campano ma un mito mediterraneo.

CAGLI – Sì, è l’archetipo junghiano della Grande Madre. Ma noi abbiamo il culto del fallo, l’Oriente il culto della vulva. Questi simboli hanno influenzato grandemente sia la scultura che l’architettura.

PLAYMEN – La sua concezione dell’arte come artigianato era propria del Quattro-Cinquecento, o ha trovato in quei secoli una delle sue massime espressioni. Non è da escludere che quella che lei chiama « tendenza innata » le derivi dagli artisti italiani di quel periodo storico.

CAGLI – L’esempio più immediato, per noi del Mediterraneo, ci viene da Michelangelo. Michelangelo sbozzava il marmo di Carrara per i « Prigioni » come se fosse burro. Braque incominciava un quadro non già obbedendo a spinte ideologiche, ma come se il quadro fosse un finto marmo, o un finto legno; incominciava con la materia per poi entrare nella pittura.

PLAYMEN – Ma l’arte come artigianato va scomparendo, non solo come modo di concepire l’arte stessa bensì soprattutto come modo di praticarla. L’artigianato in se stesso va fatalmente scomparendo. Lei quindi rischia di apparire un sopravvissuto.

CAGLI – No, c’è un conflitto in corso, e non si può dire ancora chi prevarrà. Certo, la grande industria tende a soverchiare l’artigianato, e da qui i motivi della nostra angoscia. Ma in Cina alla fine della « grande marcia » i ponti di bambù si sono rivelati di una primaria importanza. Anche nella guerra del Vietnam l’artigianato ha prevalso sulla più potente industria bellica della storia umana.

PLAYMEN – Lei crede nel possibile recupero della presenza dell’uomo nel corso delle civiltà future?

CAGLI – Sempre. Non credo nelle società ampiamente collettivistiche. Se mi si consente un paragone, è sempre il singolo giocatore che segna il gol, non è tutta la squadra che entra in porta.

PLAYMEN – Ma il lavoro artigianale era un lavoro di gruppo, o d’équipe, come si dice oggi. Nel Quattro-Cinquecento l’arte come artigianato veniva fatta nelle botteghe, dove si lavorava appunto in gruppo.

CAGLI – Certo, ma anche quella era una vocazione innata. Io, ad esempio, ho fondato una arazzeria ad Asti. La gente pensa che ad Asti ci fosse una tradizione ed invece no. Quelli che lavorano con me nell’arazzeria avevano una tendenza innata. Non avevano mai fatto prima quel lavoro. C’è chi ha questa tendenza e chi non c’è l’ha. Si può prelevare la maestranza persino tra gli infermieri di una clinica. Le macchine non potranno mai sostituire l’uomo. Non avremo mai gli stessi risultati.

PLAYMEN – In che rapporto, appunto, l’artigianato si pone con la tecnica o con la tecnologia?

CAGLI – Di conflitto, naturalmente, se per tecnica intendiamo l’uso dei mezzi meccanici. Prendiamo il telaio Jackar, con le schede elettroniche: esegue fedelmente dei segni, ma senza vibrazione coloristica, pittorica. Una mano, anche se sbaglia, è sempre più significativa.

PLAYMEN – Quand’era ragazzo o bambino, lei si rendeva conto che era portatore di questo dono innato?

CAGLI – Non era un dono. Era un mestiere. A dodici o tredici anni io facevo degli amuleti e li vendevo. lo esposi per la prima volta alla Triennale di Milano che avevo ventidue anni. Esposi un murale. Era la mia prima esperienza murale. Nel vestibolo c’era una parete mia ed una di Carrà. Al secondo piano c’erano De Chirico, Campigli, Sironi, Severini, Funi. Io avevo lavorato in una fabbrica di ceramica, avevo lavorato il cuoio sbalzato, avevo fatto il mosaico. Mi aveva fatto chiamare Sironi, non so come.

PLAYMEN – Sironi aveva visto qualcosa di suo, naturalmente?

CAGLI – Non so, ma era al corrente di quello che avevo fatto. Glielo aveva detto qualcuno degli architetti con i quali lavoravo o avevo lavorato. Sironi aveva una grande personalità, era un grande artista, ma era mal visto perché era molto autoritario. Ma, per quanto mi riguarda, mi dette molta fiducia. Io gli dissi che avrei voluto fare direttamente il murale, senza bozzetto e cartone, e lui mi lasciò fare. Negli artisti di allora c’era un atteggiamento positivo verso coloro che erano contro il Novecento. C’era una opposizione ideologica, che non investiva però i rapporti umani.

PLAYMEN – Lei ha una concezione molto romantica dell’arte, almeno per quanto riguarda la sua origine, la sua provenienza.

CAGLI – Son cose che nessuno sa. Chi può dire da che cosa ci viene la vocazione? Queste necessità affondano le radici nell’inconscio e noi non siamo in grado di dare una risposta a questa domanda. Non sappiamo da dove ci vengano i messaggi. Tutto diventa impersonale. Io credo che « Il canto di un pastore errante dell’Asia » non sia propriamente di Leopardi, ma credo che glielo abbia tramandato qualche antico pastore. Leopardi non ha fatto altro che esprimerlo. Aveva i mezzi per esprimerlo. La vera modernità viene dall’estremamente antico. Io considero Leopardi il più grande poeta degli ultimi secoli. Ma è riuscito perché veniva da Petrarca, il quale veniva, a sua volta, da qualcun altro.

PLAYMEN – Questa ci sembra una concezione junghiana della storia dell’arte.

CAGLI – Sì, io do molto più peso ai contributi di Jung che a quelli di Freud.

PLAYMEN – Per quali ragioni?

CAGLI – La differenza fra Jung e Freud è la stessa che nel mondo protocristiano corre fra il pensiero agostiniano e il pensiero tomistico. La scuola freudiana si è trasformata in una istituzione ufficiale, in uno strumento di potere. L’Istituto Junghiano di Zurigo era invece un centro di ricerche e non perseguiva scopi di carattere pratico.

PLAYMEN – Da quanto dice, è facile desumere che lei è contro la civiltà odierna.

CAGLI – Qualsiasi macchinetta mi blocca. Difatti non guido la macchina. Il mio nemico numero uno potrebbe essere Gianni Agnelli, che con i suoi prodotti distrugge i centri storici della città. So che è pericoloso dir questo, perché potrebbe farmi investire da una macchina, ma ormai l’ho detto. I pedoni rappresentano il futuro dell’umanità. Andando a piedi saremo più sani, atletici, non avremo disturbi alla colonna vertebrale. Gli arabi non ci potranno ricattare con il petrolio. Io tirerò fuori i miei cavalli, i miei amici i loro cammelli.

PLAYMEN – Ci sembra di scorgere qualche elemento discordante in quello che dice. Dapprima ha detto che è il singolo calciatore che segna il gol, pronunciandosi in favore di una posizione individualistica, poi, parlando di Leopardi, si è espresso in favore di un lavoro collettivo anonimo. 

CAGLI – Io do molta più importanza ai valori dell’inconscio ancestrale che non a quelli dell’inconscio individuale. Il singolo è quello che finisce col decidere, ma sulla base di un materiale inconscio. Guardiamo le formiche. In duemila riescono a realizzare qualcosa, in cinque nulla. Gli animali più sviluppati agiscono da soli o in coppia. Questa è la mia polemica contro la società americana e contro la società sovietica. Loro sono come le formiche, noi anarchici italiani siamo come i castori. Per questo mordiamo la mano di chi ci vuole organizzare.

PLAYMEN – Ci può dire quali sono per lei gli artisti che hanno sentito maggiormente la materia e che hanno fatto dell’arte nel senso in cui la intende lei, ossia dell’arte artigianale?

CAGLI – Arturo Martini, che era un grandissimo scultore, ingiustamente messo nel dimenticatoio. Arturo Martini sentiva di più l’argilla, la terra. La critica snob di oggi esalta Henry Moore perché ha un nome inglese, mentre ha dimenticato Arturo Martini perché ha un nome italiano. È una forma di provincialismo. Arturo Martini è stato una presenza favolosa. Ha aperto le porte a tanta gente, in quella morta gora che era la scultura dell’epoca. Poi viene Mirko. Mirko sentiva i metalli come un rinascimentale. Un altro che aveva il senso della materia, soprattutto nel campo della cera e dell’encausto, era Brauner. Per quanto riguarda i pittori, avevano in sommo grado il senso della materia Paul Klee e Max Ernst. Un pittore che non aveva affatto il senso della materia era invece Piet Mondrian. Dimenticavo Brancusi. Pochi avevano come lui un senso della materia così profondo. Io l’ho conosciuto quand’era già vecchio. Era straordinario. Aveva il senso della pietra che si trasformava in idolo a livello primordiale…

PLAYMEN – Anche lei lavora ad encausto. Ci vuole spiegare che cos’è l’encausto?

CAGLI – Bisogna distinguere fra encaustica ed encausto. In inglese non c’è differenza fra i due termini e i due procedimenti, ma in italiano sì. L’encausto si fa con strumenti roventi, cioé è quella pittura che si fa lavorando con strumenti roventi panetti di cera impastati con il colore. L’encaustica si fa con il pennello, cioè si tratta di tempere, grasse e magre, realizzate con la cera e con il pennello. Gli encausti pompeiani sono basati sulla tecnica dell’affresco. Quegli artisti adoperavano una emulsione di cera e acqua, che si può ottenere con l’ammoniaca, poi, più tardi, con un ferro caldo, riscuotevano la cera. La cera conserva il colore –- la timbrica – in modo straordinario.

PLAYMEN – Da dove deriva l’encausto?

CAGLI – Io ho visto frammenti tibetani fatti di terra e di cera che risalivano al Mille. La cera è stata sempre adoperata per fare il bronzo, ma l’adoperavano anche i pittori. Molti scultori erano anche pittori. Come succede a me, del resto.

PLAYMEN – Lei non è soltanto scultore e pittore. È anche muralista, arazziere, ceramista, mosaicista, scenografo, ecc. È un artista rinascimentale nel vero senso della parola. Ma non teme che un’attività così molteplice, proiettata in una sfera così vasta, finisca col disperdere la forza della personalità, la concentrazione, la profondità?

CAGLI – Io sono abbastanza concentrato. Poi c’è chi mi aiuta a concentrarmi. Ho una vita molto affollata. Tiziano è stato molto operoso, ma quanta gente a casa sua, quante tavolate! Kant ci insegna che a tavola bisogna essere minimo in tre, massimo in nove, il numero delle muse. Io sto volentieri con la gente. Mi interessano i campi affini. Frequento sempre meno i pittori, specie quelli della mia generazione, che sono diventati tutti bancari. Se mai mi occupo dei giovani…

PLAYMEN – Lei che lavora anche come scenografo, cosa pensa del teatro in Italia? Se non frequenta i pittori, frequenta forse gli uomini di teatro?

CAGLI – Io non vado a teatro. Non vado a vedere « Il giardino dei ciliegi » di Visconti. So come va a finire. Preferisco andare alla partita.

PLAYMEN – Non frequenta neppure il teatro lirico, per il quale lavora?

CAGLI – L’opera lirica mi piace molto, ma mi interessano pochi autori. Mi interessano quegli autori che anche a livello di libretto consentano un’azione pittorica in movimento.

PLAYMEN – Qual’è l’arte che più le interessa?

CAGLI – Mi interessa tutta. Io sono d’accordo con Van Gogh: dalle cattive pitture si traggono delle ispirazioni senza limite. Io colleziono tutto.

PLAYMEN – Ci può dire quali uomini, di quelli che ha conosciuto, l’hanno maggiormente colpita per la forza della loro personalità?

CAGLI – È una collezione così vasta. Massimo Bontempelli, Arturo Martini, Igor Strawinsky. Di Strawinsky ero molto amico. Dei poeti, Ungaretti, Olson, Cummings, Palazzeschi. I miei amici vanno reperiti nel campo della poesia e della musica, ma ho tanti amici anche nel campo sportivo.

PLAYMEN – Ha seguito le ultime aste internazionali. La maggior parte della pittura impostasi negli ultimi quindici o vent’anni è crollata verticalmente. La pop-art è andata in frantumi. Ma sono caduti anche pittori di ben altro orientamento. Cosa ne pensa?

CAGLI – È giusto che quest’arte sia caduta. Era tutta falsa. Era stata enormemente sopravvalutata. Il pubblico vuole la qualità. Era una moda imposta dal neocapitalismo. Prima o dopo non poteva non crollare.

PLAYMEN – Interrompiamo qui il discorso perché il Maestro ha un impegno, ma esso potrebbe continuare all’infinito. Con una personalità come Cagli, sarebbero tanti gli aspetti da esplorare… Ne abbiamo toccato soltanto alcuni di essi…

Una nuova, grande monografia sta per arricchire la già vasta bibliografia del maestro Corrado Cagli. E’ imminente la pubblicazione, presso gli Editori Riuniti, de « La pittura e il teatro », un affascinante volume che raccoglie scenografie, costumi e macchine teatrali che Cagli ha prodotto dal 1947, dalla collaborazione con Balanchine e la Ballett Society di New York ai giorni nostri. Un percorso quasi trentennale di cui il volume vuole appunto essere documento esauriente. Cagli ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della scena teatrale di oggi, operando dagli Stati Uniti all’Europa, da New York a Vienna, Milano, Roma, Firenze, Berlino. Fra le grandi realizzazioni di Cagli di cui il libro dà la prima documentazione unitaria vi sono « Il trionfo di Bacco e Arianna »  messo in scena con Balanchine e la Ballett Society a New York; il « Tancredi »  di Rossini con il quale, al XV Maggio fiorentino, il maestro si avvicina per la prima volta all’opera lirica; «Perséphone » di Strawinskij; « Filottete »  di Sofocle.

Ho incontrato Cagli nel suo studio romano perché lui parlasse ai lettori de l’Unità di questo suo libro, verifica di un’ampia e ininterrotta stagione.

Il libro raccoglie – mi dice Cagli – tutto quanto ho prodotto per il teatro in questi anni. E’ un’opera curata da Renato Nicolai; un’opera complessa, vasta. Alla parte iconografica che interessa ogni singolo spettacolo che ho allestito viene sempre premessa una testimonianza degli artisti con i quali ho collaborato: un lungo elenco di nomi da Goffredo Petrassi a Roman Vlad, da Francesco Siciliani a Glauco Mauri, Mario Verdone, Massimo Bogiankino, Aurelio M. Millos. Sulla mia attività teatrale negli Stati Uniti rende conto, nel libro, Giovanni Carandente mentre Carlo L. Ragghianti ha tracciato una nota di prefazione.

— È stato scritto che la sua attività di scenografo, contrariamente a quanto avviene per altri pittori che fanno scenografia, è da considerarsi inseparabile dalle altre manifestazioni della sua espressione artistica. Condivide questo giudizio?

— Totalmente. Mi lasci intanto specificare un termine: io amo dire pittore per il teatro e non scenografo, per quanto riguarda questa mia attività. Forse già in questa « precisazione » c’è la risposta alla sua domanda. Ma voglio approfondire questa risposta. Io mi servo delle dimensioni del palcoscenico, della platea forse è detto meglio, di uno spazio più ampio di quello che mi concede il quadro; più ampio e di un respiro meno calcolabile. Ogni pittore chiede uno spazio: quello del teatro arriva a dare almeno a me, una maggiore naturalezza alle forme concettuali, razionali. Per esempio quando ho fatto il mio intervento, con Glauco Mauri regista, sul Filottete di Sofocle la concretizzazione scenica dell’idea di ipercubo di tubi metallici è divenuta una realtà « naturale » che ha permesso a Mauri una espansione delle sue capacità di interprete del testo. Le dico ora una cosa curiosa: se faccio un determinato quadro so che può essere non capito; se da quel quadro ne derivo un arazzo so che la gente lo capirà meglio; se, infine, la stessa idea la realizzo sulla scena so che sarà capita ancora meglio.

— Qual è il significato della sua ricerca dell’ « unità visiva » fra gli elementi che compongono uno spettacolo? Penso in particolare ai costumi e ai bozzetti per il « Tancredi », « Estri », « Marsia » che rendono esplicito questo discorso sulla compenetrazione e sull’autonoma fusione fra i linguaggi.

— Lo stesso significato che perseguiva Diaghilev con il suo lavoro d’équipe, stabilendo sodalizi come quello con Strawinskij. Lo spettacolo deve essere il risultato di un insieme di interventi che devono essere portati tutti al massimo della tensione. Il compito del pittore per il teatro è, in questo ambito, quello di rendere visive anche le cose auditive. Di qui, per inciso, la mia critica ai balletti sovietici, che sono, dal punto di vista coreografico, grandissimi, ma che non lo sono altrettanto, purtroppo, dal punto di vista visivo. Sono belli come i Globe Trotters, cioè diventano quasi una cosa sportiva.

— Che cosa deve, allora, Cagli al teatro?

— L’approfondimento della mia dimensione. Il teatro mi ha aiutato a tracciare sempre più netta la separazione che io ho sempre fatto fra gusto e funzione. Io cerco con tenacia di non cedere al gusto.

— Tranne l’episodio della “Bibbia” di John Houston lei non ha fatto cose per il cinema. Perché?

— È un mondo lontanissimo da me. Non ci intendiamo. Il cinema è una macchina che può fagocitare.

Roma, aprile

Quando uscimmo dallo studio di Cagli, all’Aventino, proprio alcuni giorni prima della sua morte, l’amico, scrittore Renato Nicolai, che mi ci aveva accompagnato, mi chiese: « Che c’è? Ti vedo perplesso ». « No », gli risposi, « perplesso no, ma frastornato. » « Lo credo bene », obiettò Nicolai.     « Cagli è un introverso, ma un introverso che morde.» In effetti ne ero stato morsicato. Forse, gli ultimi morsi che il grande pittore ha dato in questa valle di lacrime.

Tre risposte, secche, dure, presuntuose, nel nostro lungo dialogo-battibecco, mi si rivoltavano ancora nella mente. Gli avevo chiesto: « Quando ha scoperto l’arte? » e lui, aggressivo, quasi offeso: « A quattro anni! ». « A quattro anni? » « Perché no? Avevo interpretato in modo originalissimo un disegno del “Corrierino dei piccoli”. In quella mia prima opera erano già chiari i germi dell’artista. »

Più avanti, seguendo il suo racconto biografico, gli avevo domandato: « Quali furono le sue reazioni, quando ritornò in Italia, nel 1948, dopo la guerra? ». E lui, ancora aggressivo, ancora offeso: « Io ero già un caposcuola quando avevo lasciato l’Italia. Le mie reazioni, al ritorno, non potevano quindi che essere quelle di un caposcuola ». Infine, quasi al termine del nostro incontro, allorché si era venuti a parlare di un invito che aveva appena ricevuto per partecipare a una mostra a Madrid, lui disse: « Ho rifiutato perché non intendo servire da paravento democratico a un regime che resta antidemocratico e che cerca soltanto di stabilizzarsi nel tempo ». Io gli avevo chiesto: « Ma non pensa che, massimo un anno, anche Juan Carlos finirà per trovarsi alle corde? ». « Nient’affatto », aveva subito risposto con tono intransigente, categorico. « Lei è troppo ottimista. Io conosco bene gli spagnoli: è un popolo che si muove a tempi lunghi, lunghissimi. »

Ecco, Cagli uomo era questo. Ma Cagli artista ne era la controprova del nove. Non per niente era nipote di Massimo Bontempelli e non per niente è stato paragonato a Voltaire. Ungaretti aveva scritto di lui: « Ci sorprende di continuo, di continuo si rinnova e, nella sua arte, per esempio, sempre rimane quello che sino al primo momento s’era proposto di essere, un precursore che, per riconoscersi, fruga nella tradizione, in qualsiasi tradizione ».

Dunque, intransigente e geniale. Gli avevo chiesto: « È stato tutto facile all’inizio?». « Diciamo che è stato inevitabilmente facile, grazie alla mia precocità. Per la verità, avrei dovuto fare l’insegnante, secondo i progetti aviti. Ma io l’insegnante non l’avrei mai fatto, quindi è stato tutto facile. La difficoltà, se mai, era, in quei tempi di oscurantismo fascista, riuscire a esprimersi e a rompere gli schemi accademici e archeologici imposti dall’alto. Da qui, le ragioni delle mie frequenti baruffe col regime. Quando, ad esempio, nel 1936, esposi alla Triennale di Milano la “Battaglia di San Martino”, fu uno scandalo, anche se prudentemente sopito dal Minculpop: quell’opera rappresentava un palese atto di disprezzo verso il novecentismo greve ed enfatico del regime. »

Nel 1938, in seguito alle persecuzioni antisemite del fascismo, Cagli lasciò l’Italia. « Sì, andai. a Parigi, quindi a New York. In America, ebbi confronti fecondi con altre esperienze di artisti europei, anche loro esuli oltreoceano. Fu una specie di “rinascimento” in esilio, che fu indubbiamente utile per noi, ma che sostanzialmente giovò assai di più all’immatura cultura artistica americana. Non bisogna infatti dimenticare che fummo noi europei a gettare i germi di quella arte pop che poi venne importat dall’Europa come una ”invenzione” americana. Man Ray, per citare un esempio, non ha “inventato” niente, ha soltanto copiato e basta. »

Dell’America Cagli non aveva un buon ricordo. « È un paese amorfo, senza interiorità, l’arte vi resta soltanto alla superficie. Ciò spiega il rapido sviluppo del mercantilismo artistico, che riduce tutto ad accatastare tesori nelle collezioni e nei musei, dove restano spenti per le coscienze.»

Durante la guerra, Cagli, irrequieto e avido di rivincite, entrò nelle file dell’esercito americano e partecipò allo sbarco in Normandia.

« Sì, partecipai a tutta la campagna di liberazione dell’Europa, fin dall’inizio. Ma i ricordi cli quel periodo sono, offuscati dalla visione, che mi è rimasta immanente e che ho espresso in numerose opere di quel periodo e degli anni seguenti. Di un’Europa distrutta, dimentica della propria civiltà, caduta in una cupa tragedia medievale, un’Europa di uomini morti di fame, di torture, di bombe. Ho però un altro ricordo, sorridente questo, ma purtroppo aneddotico: arrivati in Belgio, scovammo alla periferia di Liegi un immenso deposito abbandonato della Wermacht. In un capannone, oltre al resto, vi erano diecine di casse di pennelli. Le feci caricare su un autocarro e, con quel prezioso carico che mi ero portato sempre appresso, qualche mese dopo feci il mio ingresso in Parigi libera. Portavo la materia prima per la resurrezione artistica della povera vecchia Europa accasciata ma sempre viva. »

Al suo ritorno in Italia, nel 1948, Cagli stentò a reinserirsi, restando per qualche tempo isolato dall’avanguardia « ufficiale ».

« No, non è esatto: diciamo che io ho perseguito le mie esigenze sperimentali, che non sempre si sono trovate a combaciare con i programmi radicali dell’avanguardia. Io non ho voluto radicalizzare la mia ricerca artistica, e ben a ragione, preferendo perseguire una presa di coscienza sulla complessità della cultura moderna. Io mi ritengo, senza presunzione, un caposcuola, e quindi devo indicare e non seguire le vie della ricerca. Questo deve essere ben chiaro. »

Cagli è stato un personaggio estremamente complesso, quasi disumano. Nel lungo colloquio che ho avuto con lui, pochi gli spunti umani (« Ieri è venuto a trovarmi un vecchio caro amico, il cardinale Lercaro: lo stimo moltissimo perché è uno dei pochi grandi reazionari che sia stato capace di diventare progressista »; « I giocatori della Juventus, quando vengono a Roma, fanno sempre una visitina al mio studio »). Eppure, il messaggio artistico che ci ha lasciato è un messaggio di solitudine e di umanità.