Davide e Golia, 1940
Olio su carta, 30,5 x 19 cm
Roma, collezione privata
Davide emerge, muove lenti passi in salita e consiste nel vibrare del segno, che risponde ad una sorta di scrittura energetica, sollecitata ad un ritmo incalzante, come avviene quando i pensieri si succedono rapidi e non lasciano tregua, anche perché l’accadimento si configura inatteso miracolo che varca le umane aspettative.
La possanza del giovanissimo eroe è pervasa da un fremito che lo identifica incredulo, frastornato, consapevole d’essere stato, non l’artefice di un atto eroico incomparabile, bensì lo strumento del volere divino. Dio ha dotato il suo braccio di una forza straordinaria ed il suo occhio di quella mira infallibile, grazie alla quale è stata abbattuta con un sol colpo la superbia di Golia.
Davide ha nei capelli del gigante l’appiglio per sollevarlo. Il fervore divino che permea tutto il suo corpo si estende all’evidente inconsistenza di Golia. Il peso sopportato dal braccio è certamente meno grave della vanagloria che alimentava i pensieri di quel feroce campione, che si vantava d’essere invincibile.
Cagli propone Davide che avanza verso i suoi compagni, mentre lo acclamano. Il passo è in ascesa, come la sua nuova posizione nel favore regale e popolare, ma nel cuore l’eroe sa che non dev’essere attratto dall’esultanza esteriore. Volge infatti la testa dove lo chiama la riflessione: “quis ut Deus?”.
La fionda nella destra non è, e non sarà mai più, arma che eguagli quella della fede. Il canto del popolo che esalta la vittoria renderà quell’eletto sempre più umile. In quell’umiltà grandeggerà l’eccelso poeta salmista.
( Cagli nel centenario della nascita, a cura di A. Calabrese. )