Scritti

Una selezione di testi autografi redatti negli anni da Corrado Cagli

(in “Quadrante”, n. 1, Milano, maggio 1933)

(in “Quadrante”, n. 6, Milano, ottobre 1933)

(in “Harper’s Bazaar”, marzo 1948, pp. 232-237)

(conferenza, Casa della Cultura, Milano, giugno-luglio 1948)

(in “Corrado Cagli”,  cat. mostra, Galleria del Secolo, Roma, 1949)

 (in “Capogrossi”, cat. mostra, Galleria del Secolo, Roma, gennaio 1950)

 (in “Antonio Sanfilippo”,  cat. mostra, Galleria Age d’or, Roma, 22 marzo – 5 aprile 1951)

(in “Ulisse”, a. XII, vol. VI, fasc. XXXIII, estate 1959, Firenze, Sansoni, pp. 9-11)

Richiamo l’attenzione su due fatti di grande importanza: uno avviene in pittura, l’altro in architettura. Fatti dai quali non si può prescindere se si vuol supporre per logica anziché per intuizione il divenire dell’estetica nella plastica contemporanea.

In pittura, e ormai da tempo, e sotto diversi cieli, si manifestano aspirazioni all’arte murale, all’affresco. Manifestazioni antitetiche anche se parallele nell’intenzione, per la diversa genesi geografica o spirituale. Nel primo caso sottolineo il senso culturale e snobistico che può avere l’affresco in un nordamericano affinché si noti quanto sia più spontanea la stessa aspirazione in un umbro o in un toscano. Né intendo sostenere diritti di tradizione. Ma penso al mirabile esordio dei maestri Comacini con le prime forme Romantiche, e al loro metafisico perdurare (se non è leggenda la strage subita), in comaschi del nostro secolo fino a Sant’Elia e Terragni.

Quanto alla genesi spirituale alludo ai motivi che inducono alla pittura su parete. Molteplici, iniqui o giusti che siano. Iniqui motivi: quelli che sono in funzione di una accademica diagnosi dell’ultimo trentennio, e di un mediatore spirito pseudo-umanistico che porta a vagheggiare forme rinascimentali (esistono ancora preraffaelliti) traverso il caleidoscopio falso e scolastico dei bozzetti dei cartoni, degli spolveri. Giusti motivi: quelli che segnano il superamento delle forme pure e preludono a sensi di pittura ciclica; al neoformalismo classicheggiante, e arcaico, contrapponendo il primordiale.

Nella necessità del ciclo, nella movenza di primordio, sono visibili i segni di un superamento delle tendenze di ripiego, fra le quali è da considerare tipica la scuola del novecento milanese.

Né tale situazione è singolare della pittura. In musica, in letteratura, in tutte le arti, è lo stesso bisogno di stupore e di primordio che si fa sentire, la stessa angoscia di abbandonare il frammento, e, liberati da un complicato intelletto, farsi i muscoli e il fiato per un’arte ciclica e polifonica.

Quanto si fa in pittura oggi al di fuori della aspirazione murale (che ha persino mutato lo spirito della pittura da cavalletto influenzandone l’impianto e la materia) è fatica minore e, storicamente, vana. A convogliare le forze della pittura contemporanea occorrono i muri, le pareti.

Segnalata l’aspirazione murale della pittura odierna, l’altro fatto importante da considerare riguarda 1’architettura. Alludo alla crisi estetica che va traversando quell’arte, crisi che ancora più inasprirà il giorno che il razionalismo sarà divenuto patrimonio comune.

Ho sostenuto altrove che i ritmi dell’architettura contemporanea sono in funzione di una metafisica troppo scoperta, e collaborano a un’estetica, dopotutto, barbarica. Respinti, per le ragioni che tutti sanno, moduli e fastigi, modanature e capitelli, l’architetto innovatore ha ritrovato dell’architettura il senso e il metro; ma, insieme a queste altissime conquiste, ha contratto vizi stilistici e incongruenti ripugnanze. Questa è la stagione in cui la parete bianca non chiede alla statuaria soccorso per divenire allusiva e profonda, né chiede le figurazioni dipinte per un’errata interpretazione delle parole “sintesi” e “metafisica”. In nome di queste due virtù si è operato in “povertà” e “vaneggiamento” se perfino Modigliani, che è dei più grandi, è stato piuttosto sommario che sintetico.

L’architetto che non ha il senso orchestrale dell’unità delle arti, non è raro oggi, ma si trova in condizioni di barbarie. A questo punto conviene ricordare che barbarico non significa primordiale. Allora, passato col vento su tali questioni della pittura e della architettura, considerati i caratteri essenziali che sono, nell’una la volontà di potenza e l’aspirazione ciclica, nell’altra l’intelligenza della costruzione fino all’inaridirsi della fantasia, vedo che si può concludere invocando la collaborazione delle arti, se non la fine delle specializzazioni.

Sulla base dei fatti contingenti che sono avvenuti e avvengono, e dei fatti trascendenti eternamente in potenza o in divenire, è possibile prevedere gli sviluppi della pittura Italiana.

Quanto più le situazioni si complicano e si annodano confusamente, tanto più si avvicina il momento della semplificazione e della soluzione di tutto. Gli ultimi gesti della pittura italiana, intendo per ultimi quelli avvenuti da un secolo a questa parte, non hanno mai raggiunto il colmo della loro misura e per questo loro impegno parziale, qualche volta distratto, l’arte figurativa non ha tenuto il passo a fianco del risorgimento del popolo. Infatti giornate epiche hanno avuto indegni esaltatori e al giorno d’oggi il ritardo persiste e ci nasconde i miti. Ma il sangue, in basso, il cielo, in alto, non lasciano passare il tempo senza che a un certo momento la loro potenza non si riveli e formi la copula che di una razza e di una terra lascia il lievito eterno. Gli uomini che sono presenti a questi eventi miracolosi credono che vi sia un progresso e salutano la maturazione di un seme.

L’astro che, per il suo ciclo, sale illuminando il cielo e torna ai margini dell’orizzonte, oggi è Roma. Né mai è accaduto che astro non abbia seguito le leggi del suo moto, senza aver compiuto tutto il suo giro per tutto lo spazio della sua giornata. Per leggi cosmiche, durante quello spazio, dall’astro scendono gli impulsi e a lui convergono le fatiche degli uomini. Così che una luce scende dall’alto e dalla terra salgono, le architetture.

I fatti contingenti cui alludevo, sono quelli avvenuti negli ultimi anni nei piani della politica e delle arti, poiché salito nuovamente all’orizzonte l’astro di Roma, sono tornati nella vita i metri di una umana ragione e la disciplina degli equilibri. L’impulso è frenato, l’eccesso è contenuto, l’ignavia è fuori dell’ordine. La fatica di tutti gli uomini qualunque sia la ragione della vita loro e per diverso che sia il loro campo di lavoro, è regolata dal metro di una suprema continenza, preparazione e attesa di una vita armonica. Così i problemi si sono unificati e le forze convergono a un centro. Le idee divergenti si sono coordinate secondo la legge dei contrari, che le governa. Nel giro di pochi anni, è avvenuto il transito, e la luce dell’astro oggi rischiara la terra e dà cuore agli animi, salita la volta con moto inavvertibile, gli uomini che si sono destati sono sorpresi che sia l’alba. Ora tutti vivono nello stesso punto del ciclo, le arti aspirano a una concorde armonia. Ancora in modo distratto, e ancora si perpetuano le confusioni e gli equivoci. Ma questo è normale della vita e comunemente avviene che l’istrione reciti per breve ora la parte dell’eroe. Ma la sua verità dura poco se egli ritorna istrione non appena calato il sipario.

A questa concorde armonia le arti sono giunte (l’una a complemento dell’altra, come ognuna in sé) in forza delle confusioni e degli equivoci di valutazione. È venuto il tempo di distinguere i generi dalle tendenze e, come ho detto nel secondo «Quadrante», è necessario non giudicare eclettismo la ricchezza dei plastici contemporanei, e vedere che la forma e l’astratto, sono appunto due «generi» come l’epica e la lirica sono due «generi». È ovvio insistere sulla possibilità di coesistenza di più generi in uno stesso poeta, in uno stesso pittore. Chiarita la questione dei generi è più facilmente comprensibile la mobilità delle lancette sui quadranti che han dato l’ora del tempo nostro. E si capiscono Picasso e Braque alla base del primordio, si capisce Carrà nel suo peso e nella sua grandezza, non come innesti ma come midollo sotto la corteccia del tronco. In un ‘alba di primordio (nuovo e strano primordio, infinitamente diverso dai primordi vivi di limite e di naturalezza dei Babilonesi e degli Ittiti, degli Egizi e degli arcaici Greci e infine degli Etruschi) in un ‘alba di primordio tutto è nuovamente da rifare e la fantasia rivive tutti gli stupori e trema di tutti i misteri.

La forma appare nuova e l’astratto è una nuova forma, le dimensioni sono vive del loro miracolo, e il cavallo bianco è strano, strano il cielo, strano dipingere il volto di un amico.

Ma poiché «tutto è nuovamente da rifare» nascono gli equivoci e le confusioni, e abbiamo visto negli ultimi tempi nella pittura italiana, chi si è impaludato nelle pieghe dei neoclassici del secolo decimonono, perpetuando l’errore della risacca che stanca l’onda e la fa giungere alla costa rotta e affievolita. Come questi errori nascano è chiaro si si pensa che con l’impressionismo e poi col futurismo sopravvissuto alle sue giornate l’altro ciclo si è chiuso e i primi aliti del primordio si sono avuti a contrasto, con il cubismo.

Se si pensa che una generazione stanca dall’inquietudine della confusione non può credere che nelle reazioni e questo facilmente la travolge nel senso del «novecento milanese».

È pericoloso aspirare a ritmi classici perché spesso confusi dai vincoli della nostra preistoria non ci avvediamo di dare nuova carica a un vecchio disco. Così spesso chi anela a un affiato romantico, chi tende al respiro classico fa opera da neo-romantico o da neo-classico. Queste sono le cose che tutti sanno e tuttavia gli errori in cui tutti cadono.

Ora, io credo fermamente, che questo convergere al centro e unificarsi dei problemi che ho avvertito, ponga l’arte italiana nella necessità spirituale (come nella contingente per le ragioni ovvie dello Stato) di ricondursi a Roma.

È chiaro che per noi non si tratta di «neo-umanismo». L’idea di Waldemar George è tuttavia un sintomo del potere magnetico di Roma.

Quando le difficoltà del contingente saranno superate, e il cerchio magico di una scuola e l’accostarsi dei poeti alla fonte dei miti saranno eventi compiuti l’arte del nostro popolo avrà il prestigio di Roma.

When, in 1945, I went down to ltaly after months up front in Germany, I was surprised to find in the ruins a cheerful people and a great deal of activity in all fields. The field of painting was no exception. At first glance, this seemed almost unbelievable, for I could neither guess where a painter could get colors, brushes, and the various other materials of his craft, nor who, in the evident misery of the country, could afford to buy works of art.

I carne to the conclusion that painting has much less to do with economics than with faith. It shouldn’t, then, have surprised me that the tragedy of the last few years had strengthened the Italian faith· in painting.

Right after my trip to Italy, I returned to New York, and there I found a tremendous amount of curiosity about Italian art. There was also a tremendous lack of information, easily explained by the fact of the war and of its length. Various magazines, from Vogue to View and from Harper’s Bazaar to the portfolios of Caresse Crosby, attempted to cover the field.

Since these publications appeared, I have heard a good deal of talk about an “Italian Renaissance”. Obviously, there is no “Italian Renaissance” whatsoever. Even the idea of a renaissance in the Italy of 1945 to 1947 seems pompous and unreal. A “renaissance” gives the impression of an esprit dé retour. But since Modigliani, Boccioni, Morandi, and De Chirico (1912-18), the Italian school of painting has been an independent one. There has been no lack of continuity that would justify the necessity of a rebirth.

I wonder if the rhetorical interpretation of a “renaissance”, which has been given to simple facts, isn’t due to the above-mentioned reportages – all optimistic but quite contradictory and each dedicated to a different selection of artists and facts.

I don’t wish to accuse the American reporters of lack of critical judgment. On the contrary, some of them were very well prepared. But it is difficult to believe how hard it is for an American journalist to overcome the obstacle of the thick fence of feuds that cuts the narrow republic of contemporary Italian painting into a million fields, trends, styles, and schools. This is nothing new, nor is it typical of Italy. Paris has its Montparnasse, New York its Greenwich Village, and Rome its Via Margutta. The old joke – “Via Margutta, gente brutta” – is true enough, but it is here that the journalists usually land to discover new Italian painters, or an Italian Renaissance – and here that they find instead only a lot of picturesque characters, producing a lot of junk. What capable characters are these, crafty and arrogant enough to blur gently, with the help of Italian sun and wine, the judgment of some of the best American correspondents!

If this were not the case, why are names unimportant in Italy known in New York, while outstanding figures like Arturo Martini, most important Italian sculptor of the last twenty years, have not yet been heard of ?

For one good Italian painter, fifty mediocre ones make the atmosphere foggy. Sciu-scias on a higher level, they run their own racket – to isolate as much as possible the visiting foreigner in search of true values. As soon as the guest is completely convinced that the two painters and the one sculptor that he knows are the only good ones in Italy, the sciu-scias launch an attack to destroy the self-confidence of their foreign friend.

For example, when Caresse Crosby, with passion and good will, went to the Studio di Villa Giulia, an important atelier specializing in a high level of handicraft, the touchy head of the studio, perhaps offended by the interest Mrs. Crosby was taking in his work, told her, “You Americans had better stick to your iceboxes. As for painting, sculpture, mosaic, and so on, leave that to us”.

Still the gentleman who took this stand was at that time sponsoring a tremend9us output of monumental tables made of mosaic and intarsia, in precious stones and marbles, such as the Emperor Diocletian might have commissioned for his Terme. His studio was using designs .by artists not always on a· level with Noguchi and Graves. And Noguchi and Graves are not ice-boxes! 

If the latest rumors from New York are accurate, the Museum of Modem Art is planning a show of contemporary Italian art. Should such critics as James Thrall Soby and Alfred Barr be sent on a mission of this kind, their judgment and their selections would be an even greater contribution to the Italian milieu than to the art world of New York.

I am sure that the reason Italian painting is in a state of deep confusion is because there is no discrimination on the basis of quality alone. I am also sure that nothing is more rare in Italy today than a critic capable of being at once competent, honest and authoritative. If there is an exception to this rule, I apologize. But if any critic in Italy had all three of these qualities, he would be so outstanding that his influence would be felt, and his name could not easily be forgotten.

In spite of the three main handicaps-the activity of the sciu-scias, the low tone of Italian critique, and the amateurish methods of Italian art dealers the Italian field is as rich in creative talent as any you can mention. But the art world of Italy is not centralized like that of France or the United States. An accurate survey of prominent Italian painters of the older generation (prominent rather for what they have done in the past, than for what they are doing now) finds De Chirico in Rome, Sironi and Carni in Milan, Morandi in Bologna, Casorati in Turin, Severini and De Pisis back in Paris. Ottone Rosai is still the only important painter that I can think of in Florence.

In Italy, when you ask about the work of an outstanding painter of the class of a Rosai, a Mafai, or a Carlo Levi, you may very likely be told “E’ finito!” (He’s finished). This is a question of malcostume on the part of people who mistake their wishes for reality. Painting takes a long time to develop, and to follow the growth of a true painter is like following the growth of a tree. Even if your eyes cannot register such a slow process, you don’t come to the conclusion that the tree has stopped growing.

Painting itself is a slow-growing tree. Therefore, many of the names of the “new” Italian artists were not new to me. Mirko, Carlo Levi, and Guttuso had never been heard of in New York before the season of 1946-47. But in 1932-33, when I remember them, they were already potentially what they are today – even though they had not yet reached the fine international stature that now puts them quite above the crowd. In Rome, in addition to Mirko and Guttuso, you will find a few leading painters like Mafai, Afro, and Capogrossi, and some extraordinary painter-writers like Savinio and Carlo Levi. Among the sculptors in Rome, I prefer Fazzini and Leoncillo, though both are less strong than Mirko, and much less mature than Marino, who now lives in Milan and who is one of the best of the European sculptors.

Then there is “una nuova fioritura” of new painters, who haven’t had time enough to grow to full-sized trees, simply because they are young or have only recently started painting. Among these, Vespignani, aged 24, is one of the best, and Scialoja means something along the line established by the great Soutine. A slight American touch à la View, halfway between non-objectivism and neo-surrealism, can be found in the work of Polidori, aged 23, an interesting fellow. An American painter from New York, Nicolas Carone, has improved greatly since he started to work in Rome.

Some of the younger artists, (Vespignani, Polidori, etc.) are centered around L’Obelisco, a gallery well run by Gasparo Del Corso and by the writer, Irene Brin. P. M. Bardi’s large gallery, La Palma – a sort of Roman edition of Wildenstein – has given retrospective shows Morandi, De Pisis, Guttuso, and Cagli.

Speaking of Roman galleries, with the exception of La Palma, they remind you more of those of the Rive Gauche than those of 57th Street. L’Obelisco, for instance, suggests a boîte-de-nuit, on the order of the cabaret of Agnes Capri in 1938. La Palma, like Knoedler in New York, brings out all my infantile fears! In Knoedler, I feel as if I were in a bank; in La Palma, as if I were in a museum.

You will not feel strange in the Roman galleries, for you will see many familiar faces. The American colony in Rome is very much alive and brings to all important openings a spirit of intelligence and warmth.

But remember, when you leave the galleries, beware! The sciu-scia waits around the corner. You can spot him easily – he always hides behind a tremendous pair of mustaches.

Prima d’iniziare questo discorso premetto che a dichiarare quanto seguirà mi hanno spinto 1° la confidenza che han posto in me alcuni colleghi che io stimo, e poi il fatto che il torbido stato d’oscurantismo in cui versa la critica italiana oggi, fa sì che qualcuno di noi, pittori e scultori, debba pur levarsi a difendere gli interessi spirituali e pratici della propria classe.

Affinché il nostro ragionamento possa avere un valore costruttivo e possa portare un contributo mediato e immediato ai pittori milanesi, prego il pubblico presente di perdonarmi una forza di linguaggio, dettata da necessità di contrappeso, e di voler dimenticare per mezz’ora quella parte della mia opera che per avventura conoscesse. Perché questo non sarà un discorso dettato da motivi personali, ne sarò io che da vecchio non m’accingerò a firmare sul verso delle mie tele peggiori «Pictor optimus» in un secolo come il nostro che va mettendo da parte Gigioni e Primadonne per dare sempre più spazio a problemi ardui e solenni.

Un pittore più illustre di me e che anch’io nel passato ho onorato come un maestro, giorni fa a Milano, all’Angelicum, ha sentito la necessità di fare una levata di scudi, ma non in favore della sua classe, né in favore dell’arte contemporanea.

Giorgio de Chirico infatti non ha parlato che di decadenza, di malafede di sfacelo e vi ha avvertiti della calata in Italia del mercantilismo internazionale, specie di mostro alla Kafka, con un tale abuso di vocaboli mercanti, mercato e mercantilismo da far dimenticare per mezz’ora che esiste tuttavia, né accenna a spegnersi, il mondo eroico dei pittori e della pittura.

Non potrei dubitare per un secondo che un mercato possa nascere come conseguenza di una civiltà pittorica, ma basterà un giro d’orizzonte del campo pittura nell’ultimo decennio a dimostrare che le fortune di un mondo pittorico dipendono da motivi spirituali soprattutto più che da motivi pratici.

Considerate la situazione della pittura nel mondo nell’immediato dopoguerra. La Scuola messicana è in declino (fatta eccezione per Siqueros e per Rufino Tamajo) e questo nonostante i capitali che sono stati investiti in pittura nel Messico.

Nel Sud America, tanto l’Argentina quanto il Brasile, malgrado le assidue cure dei mercanti d’arte internazionali, non sono ancora riusciti a produrre un fatto pittorico che non vada considerato coloniale, vedi Portinari, vedi Pettoruti, e allora ci passa la voglia di fare i difficili a proposito dei Sironi e dei Severini di casa nostra.

Negli Stati Uniti il livello medio dei pittori americani è ora molto alto, però vi faccio presente che il pittore americano normalmente non interessa il mercante d’arte a Nuova York per un Investimento serio dei suoi capitali. Il mercato di Nuova York ha ereditato la tradizione europea dei Guillaume e dei Vollard e ha ormai rimpiazzato Parigi come centro del mercato artistico mondiale e tra le gallerie maggiori della cinquantasettesima strada riconoscete i nomi familiari di Pierre Matisse, Bignon, Rosemberg e Durand-Ruel.

Se il livello medio dei pittori americani è oggi alto, questo non è dovuto a appoggi o a manovre mercantili ma in parte a un fatto di cultura che fa centro a Nuova York e in parte e soprattutto al fatto che i pittori, come i poeti, nella vasta natia provincia dei 48 Stati sono temprati da una perpetua oscura battaglia contro la diffidenza, il pregiudizio, e il bigottismo di una società che li sa produrre ma non li sa valorizzare.

Non si potrebbe fare la stessa accusa al Paese francese che ha saputo imporre al mondo la sua pittura i suoi pittori, grandi o mediocri non importa, e che nell’immediato dopoguerra, servendosi appunto di una macchina mercantile professionale e competente, ha cercato di rioccupare le posizioni perdute e di imporre nuovamente al mondo un primato pittorico francese.

Ma, a parte i grandi maestri, da Matisse a Braque, da Picasso a Ronault, che tengono e terranno, finché vivranno campo ciascuno nei limiti della sua grandezza, i mercanti francesi non sono riusciti a produrre il fatto nuovo, né han potuto inventare una nuova fioritura di pittori, appunto perché la chimera mercantile, che tanto impressiona il De Chirico, non può rinascere dal-le ceneri, come l’araba fenice, né può sostituire la vita dello spirito con la speculazione capitalistica.

Inutilmente Pierre Matisse ha spiegato le sue batterie a Nuova York tentando imporre con De Buffet un pittore nuovo e inutilmente i quadri dei Pignon, dei Talcoat e dei Fougeron sono stati mandati in giro per l’Europa e per l’America. La nuova generazione di pittori in Francia non impressiona e non convince nessuno e soprattutto non porta nessun contributo alla formazione del linguaggio pittorico del nostro tempo che richiede oggi come non mai una forza morale e una ossatura umanistica che non saprà mai avere chi è perpetuamente succubo del fascino di Picasso.

Tornando al vivo del nostro discorso, perché dunque secondo il De Chirico i mercanti di arte stranieri farebbero ora la loro calata in Italia?

Perché, a detta del De Chirico, la decadenza che fu iniziata dai Monet e che s’è poi aggravata con Cézanne e con Van Gogh fino a produrre i maestri dell’arte degenerata Matisse, Picasso, Braque, è arrivata oggi in Italia a un tale punto di sfacelo da offrire pane per i loro denti ai mercanti d’arte che tale sfa-celo sono andati lungamente preparando. Alla visione apocalittica dei De Chirico c’è da opporre che i mercanti e i collezionisti stranieri si vanno lentamente orientando verso il campo italiano e appunto da quando la giovane pittura francese ha deluso l’aspettativa mentre in Italia oggi possono trovare quel che non potrebbero trovare altrove : cioè un nuovo fermento pittorico non più provinciale, una incredibile vitalità nel campo creativo e soprattutto l’improvvisa necessita di riprendere l’interrotto filo di una vocazione orfica che trent’anni or sono era servita in modo alto e puro dalla generazione di Boccioni, di Duchamp, di Picasso e di De Chirico stesso.

In Italia l’impeto primordiale di quei tempi fu prima deviato e poi interrotto da tempo di inflazione crescente della retorica quando la coscienza politica cedé il campo ai gesti vacui e ornati della retorica. Allora i pittori italiani, tutti, nessuno escluso di tale retorica hanno subito gli influssi prima e risentito gli effetti poi, ma oggi nelle esperienze umane fondamentali delle guerre delle persecuzioni o degli esilii, si son formati una coscienza che prima non ave-vano o sembrava non avessero confusa com’era dalla retorica.

Alla Biennale di Venezia, che si è aperta lo scorso mese di giugno quanto andavo prima dicendo è apparso evidente a molti osservatori stranieri, che relativamente alle mostre d’arte contemporanea che sono abituati a allestire o a vedere nei loro Paesi han trovato il livello del padiglione italiano altissimo.

Unico aspetto negativo della Biennale di Venezia è stata l’assegnazione dei premi dati o a vanvera o a mo’ di mancia.

Molti si son domandati con quale criterio il maggior premio di pittura sia andato a Braque piuttosto che a Picasso e per quale motivo il maggior premio di scultura non sia andato a Marino come sarebbe apparso naturale se con quel premio si fosse voluto presentare in campo internazionale uno scultore di classe veramente internazionale.

Giudici come Longhi e come Venturi, gente esperta nei loro campi ma totalmente al buio nel nostro, giudicherebbero con maggior competenza le biennali del tempo di Caravaggio l’uno del tempo di Cézanne l’altro, e noi pittori non soltanto dovremmo sopportare l’incredibile bestialità reazionaria di quasi tutti i critici d’arte italiani ma dovremmo anche essere incapaci di distinguere tra la funzione del critico e quella dello storico.

Il Longhi in sede di giuria alla Biennale, quando si è trattato di assegnare i premi di scultura si è astenuto dal votare dopo aver dichiarato che la scultura contemporanea non lo interessa, ma chi conosca il Longhi non dubiterà per un secondo che anche l’interesse del nostro maggiore storico dell’arte per la pittura italiana contemporanea è limitato a Morandi nel caso migliore e a Sciltian nel caso peggiore.

E ancora Longhi e Venturi sono esempi di civiltà e di cultura se li paragonate ai critici militanti e ai critici ufficiali dei giornali italiani, autori di libelli ricattatori come il Bartolini, vecchia penna un tempo al soldo del “Tevere” e di “Quadrivio” giornali di teutonica memoria o autori di zibaldoni incompetenti e aprioristici come il Guzzi o come il Bertocchi, o autori di saggetti cinici e retrivi come il Borgese, qui a Milano.

Noi pittori sappiano da tempo che la critica ha perso la sua funzione e io personalmente cito i nomi di questi signori per amore di chiarezza, non già col desiderio di danneggiarli, perché nel campo dello spirito semmai ci si danneggia sempre da soli. Non c’è nessuno che veramente possa farvi danno e il danno maggiore al Bartolini l’ha sempre fatto la sua ignobile letteratura.

Ma è utile per noi ricordare che la critica ha perso la sua funzione per aver seguito per troppo tempo i binari dell’apriorismo e del libello ed è importante che il pubblico sappia che quandomai un pittore italiano si sia spinto nei campi della ricerca e del rinnovo e abbia portato un contributo rivoluzionario alla causa universale della pittura, e l’ha sempre fatto malgrado e nonostante i critici italiani che per essergli contemporanei gli erano sempre avversi.

Pittori, scrittori, architetti e poeti invece da tempo collaborano in Italia e la solidarietà umanistica che vincola queste classi fa sì che l’Italia oggi sia in ripresa nonostante tutto. Inoltre tra pittori e scrittori, architetti e poeti esiste una civiltà e una dignità di linguaggio che i critici del tutto estranei a un tale mondo fraintendono o ignorano del tutto.

Né i critici, come dovrebbero, se avessero coscienza della loro funzione, si rivolgono al pubblico allo scopo di divulgare e spiegare l’opera dei pittori.

Si rivolgono invece ai pittori stessi, nel migliore dei casi per indirizzarli verso le strade prestabilite da certe loro estetiche prefabbricate, o nel peggiore e più frequente dei casi, per avvilirli o addirittura per offenderli, disturbandoli in un lavoro che ancorché fosse non valevole meriterebbe se non l’ammirazione almeno il rispetto degli estranei.

Nel nostro tempo il pittore non è più il Purofolle, né dovrebbe essere più il Marcello di Puccini e fa pena tornando in Italia vedere spesso il trattore elevato al rango mecenatesco e il pittore muoversi come il buffone di corte nelle osterie. Ma se ci sono pittori in Italia ridotti a questo punto cerchiamo pure le cause di un simile fenomeno in un’angustia miserevole di cui sono principalmente responsabili i critici, i mercanti d’arte e certi cosiddetti collezionisti.

Non sottovalutiamo l’importanza dell’ambiente nel quale il pittore si muove e consideriamo il fatto che la pittura italiana dopo essersi tenuta a un livello altissimo per sei secoli ininterrotti, nel secolo decimonono non soltanto ha perso un primato prima d’allora indiscusso ma nemmeno nei suoi ingegni migliori è riuscita a salvare l’onore e a sollevarsi a un livello di mediocrità. Ma il decimonono fu il secolo appunto in cui s’è andato formando in Italia questo bizzarro mito del pittore-pittore, del pittore confinato a una sensualistica visiva, che non deve pensar troppo se non a detrimento di questa sua esile capacità istintiva, del pittore infine che senza più il sostegno d’una salda coscienza umanistica e d’una vasta capacità mentale, s’è ridotto ai margini della società tagliato fuori dal pensiero pittorico e dalla sfera leonardesca della pittura come cosa mentale.

Ricordiamoci allora di come un furore matematico o un furore prospettico abbiano portato Piero della Francesca e Paolo Uccello a un livello sublime e quanta follia della conoscenza universale abbia animato la vita di tutti i nostri grandi: da Giotto a Michelangelo, da Bellini a Raffaello.

Quindi mi rivolgo ai miei colleghi e specialmente ai più giovani per invitarli a considerare come i tempi eroici della pittura italiana negli anni che van dal ’10 al ’20 giunsero a noi di una generazione molto più recente malcapiti e svalutati. Le opere maggiori del futurismo e della scuola metafisica (come quelle del cubismo orfico in Francia) venivano considerate dalla critica allora come opere di un valore puramente polemico.

A noi oggi appaiono come i modelli di quel tempo: avventure dello spirito di un’importanza infinita per aver iniziato un primordio, un tempo nuovo, nel quale ci troviamo di fronte alla pittura come si trovò Ulisse in vista delle colonne d’Ercole.

Invito i miei colleghi a considerare che quanto è avvenuto nel campo della pittura agli inizi di questo secolo in modo analogo è venuto in altre sfere dello scibile e inspecie in quelle discipline del campo matematico che riguardano più direttamente i pittori come la geometria, la proiettiva, la prospettiva. Se oggi una geometria non-euclidea e una proiettiva quadridimensionale fossero campo d’indagine più aperto ai pittori, molti nostri colleghi di queste conoscenze si gioverebbero, e con maggior convinzione accentuerebbero le esplorazioni di un mondo non più tridimensionale che fu in modo orfico avvertito dal cubismo e dal futurismo.

Però qui mi vado addentrando in argomenti che richiederebbero lunghi ragionamenti a parte, mentre prima di venire al termine di questo nostro incontro vorrei avvertire i miei colleghi di un fatto contingente che li riguarda e che non va sottovalutato.

Cioè che dalla fine della guerra in poi ho potuto osservare a Nuova York una curiosità e un interesse crescenti nel mercato artistico contemporaneo per la pittura italiana e i suoi pittori.

Ormai è definitiva la decisione del Museo d’Arte Moderna di Nuova York ai ospitare nel suo edificio una rassegna della pittura italiana dal 1910 al 1948 e questa mostra avrà luogo probabilmente nei mesi di primavera del 1949.

I due direttori del Museo Mr. James Soby e Mr. Alfred Barr che sono stati incaricati di studiare e realizzare questa mostra, venendo in Italia sono rimasti favorevolmente impressionati da quanto han visto, e, io personalmente, ho sentito dire a Alfred Barr che in Italia aveva trovato dieci volte di più di quel che non s’aspettasse.

Soby e Barr sono critici di grande valore, quindi l’avventura della pittura italiana nel ’49 è in buone mani e sono convinto che se questa impresa del Museo d’Arte Moderna di Nuova York andasse felicemente in porto i mercanti d’arte ne sarebbero impressionati e influenzati, e s’aprirebbero quindi nuovi campi di lavoro e soprattutto di amore per il loro lavoro per quei pittori italiani che si esprimessero in lingua anziché in vernacolo.

Ma parlando francamente io non credo che basti quanto il Museo di Nuova York potrà fare da solo, nonostante il prestigio di quella istituzione e la classe che i pittori italiani vanno dimostrando. Io credo che l’assenteismo dei mercanti d’Arte italiani a Nuova York sia una grave lacuna inspiegabile e corrispondente a un calcolo veramente sbagliato.

Nè vedo come mai in una città viva come Milano non venga in mente a nessuno di unirsi, mercanti e mecenati, perché nel ’49 quando una battaglia sotterranea sarà iniziata dai mercanti francesi affinché una affermazione definitiva della pittura italiana in campo internazionale venga a mancare, i pittori italiani non si vengano a trovare senza alcun appoggio in questa lotta.

Nè, dato l’enorme dislivello dei mercati, paragonando il valore minimo di opere di pittura in Italia e in America verrebbe a mancare il margine speculativo a chi in tale impresa si mettesse. Nè si potrà ridare voce e prestigio alla pittura italiana nel mondo fintanto che mercanti italiani o stranieri non appoggeranno economicamente i pittori anno per anno, mese per mese, stabilendo chiari rapporti mercantili.

Ma a ridare voce e prestigio alla pittura italiana nel mondo, nuovamente dopo un tempo infinito, sarebbe un fatto talmente importante che a questo punto chiuderò il mio discorso per lasciare a voi il tempo di valutare la gravità dei problemi che questa sera insieme siamo andati esaminando.

Per disegni di quarta dimensione intendo quelli, tra i miei, che obbediscono allo spirito e al gusto ottico della proiettiva che il Donchian ha adoperato per rappresentare i solidi di quarta dimensione.

In modo elementare, quanto appare cubico in uno spazio tridimensionale apparirà in forma di ipercubo in uno spazio di quarta dimensione. Prendendo coscienza dei significati spaziali antitetici di questi due solidi, potremmo suggerirli come metri di due diversi ordini pittorici: il cubo come legge e misura di tutta la pittura di tre dimensioni e l’ipercubo come legge e misura della pittura di quattro dimensioni.

Naturalmente, come il pittore adopera due dimensioni per poterne rappresentare una terza, il Donchian ha dovuto ricorrere alle tre dimensioni per rappresentarne una quarta. L’intera serie dei solidi di quarta dimensione (fatta eccezione per la sfera e il cilindro) nella sua casa di Hartford, propongono all’occhio d’un pittore una ottica nuova e un principio di compenetrazione degli spazi per la prima volta manifesto.

Ma il pittore che si arricchisce di questi nuovi principii proiettivi e intende quindi portarli nel suo campo d’attività come nuove leggi e nuove funzioni, si troverà poi di fronte al fatto nuovo di non poter «disegnare» in quarta dimensione se non adoperando il filo di ferro anziché il tratto e invadendo lo spazio tridimensionale anziché il foglio.

Sulle due dimensioni della pagina il disegno di quarta dimensione assume forza allusiva, non rappresentativa, e mi preoccupa il sospetto che non ci si possa avventurare nei campi poco esplorati delle dimensioni senza dover rinunziare al telaio e alla tela. Appunto perché al nostro telaio bidimensionale dovremmo preferire un telaio diversamente concepito, come un piano continuo sì, ma in tre dimensioni.

lo, nei limiti della mia ricerca, ho fatto qualche esperimento tentando di adoperare l’anello di Möebius che, ottenuto da un rettangolo di proporzione 1:5 tra i lati o 1:6, offre una forma pura e una superficie continua, non meno impressionante della sfera.

Il punto di tangenza di due sfere, l’architettura e la pittura, propone del resto la soluzione del problema. Poiché, se gli architetti contemporanei arriveranno a darci forme pure e assolute da integrare pittoricamente, sarà chiara a tutti, e, prima che agli altri alle nostre coscienze, la funzione assolta un tempo dall’architettura razionale e poi dagli architetti funzionalisti come, più recentemente, dagli architetti organici.

Sarà necessario discutere questi problemi con gli architetti e gli altri pittori, perché è un lavoro collettivo, da cantiere, quello che lo stile nuovo propone.

Intus haec ago, in aula

ingenti memoriae meae.

(S. Agostino, Le Confessioni, X, 14)

Il metodo di psicologia analitica dell’arte poetica, che Jung ha proposto nel 1922, ispira il metodo di valutazione estetica dell’arte pittorica che io qui vorrei seguire, dovendo condurre il pubblico e i colleghi alla comprensione prima, e alla valutazione poi, dell’opera più recente del pittore Capogrossi mediante il significato dei sintomi e dei simboli di questo autore espressi. Infatti i rapporti stabiliti dallo Jung tra la psicologia analitica e l’arte poetica, distinguendo nel nostro mondo meccanico il piano del subconscio individuale da quello dell’inconscio atavico, definiscono e illuminano i termini di quella coscienza primordiale che le correnti pittoriche d’avanguardia vanno gradualmente rivelando.

L’utilità di quel saggio dello Jung, preso in tale senso, cessa per me dove incomincia il timore reverenziale che il grande psicanalista ha per l’opera d’arte, timore che difficilmente potrebbe essere condiviso dal pittore o dal poeta che le stanze di Raffaello e quelle dell’Ariosto traversano come le stanze della propria adolescenza.

L’opera ultima di Capogrossi è per natura e significato estremamente inquietante, e per investigarla ho ritenuta opportuna questa mia indagine di campo psicanalitico, perché una pittura non più obbediente a un gusto ma a una funzione, nella babele dei pareti e nel marasma dei modi oggi in conflitto, va misurata al lume della logica e col compasso della scienza.

Chi ha seguito in passato l’attività pittorica di Capogrossi e ne ricorda l’apporto essenziale alla prima formazione della Scuola Romana e ne ricorda in seguito le straordinarie capacità di tavolozza che han reso il suo nome illustre nel campo delle tendenze tonali, non potrà oggi vedere l’opera sua più recente e non considerarla inquietante. Ma, secondo il malcostume che impera, anziché cercare di intendere i motivi di simile inquietudine, non parlerà qualcuno di fronte a quelle opere di “tappeti”?

Inquietante, o rasserenante, direi, è il trovarsi di fronte ai risultati di una profonda crisi di coscienza e ai frutti di una autocritica così spietata, capace di mettere a nudo, al di là dei propri interessi umani, la piaga del carrierismo nel vano labirinto di un’arte borghese.

Quali motivi e avvenimenti abbiano potuto causare un trauma psichico così profondo non è compito mio ricercare, ma la storia che andiamo vivendo è un ambito ricco di motivi e avvenimenti tali da poter provocare traumi psichici e crisi di coscienza in chiunque abbia, oltre a un corpo, una coscienza e una psiche.

Quel che vorrei poter indicare nell’opera di Capogrossi è la distinzione tra un ciclo sintomatico e un ciclo simbolico, atipico il primo, tipico il secondo e analizzare il trapasso dell’uno all’altro. Il ciclo sintomatico, il primo, quello che lo ha reso illustre come pittore, è frutto, a mio avviso, di repressioni che, impedendo ai suoi inizi lo sviluppo delle prime larve primordiali già da lui espresse, dettero plasma a un modo edonistico erroneamente adulto e impulso a un intendimento sensualistico della pittura intesa come sublimazione della libido.

Il ciclo simbolico, il secondo, mosso da un’estrema necessità di libertà e di funzione, si è rivelato probabilmente ai suoi inizi sotto i falsi aspetti di un estro antipittorico, di un impulso autolesionista, finché, nelle cadenze ripetute di un ostinato automatismo, ha potuto inconsciamente sondare il fondo dei “nostri” primordi.  

Citando nell’opera sintomatica di Capogrossi il Teatrino di campagna per esempio o il Baraccone di fiera 1939, il risalire alle fonti aretine di Piero della Francesca, appare in quelle opere come un avvenimento del tutto esterno, mentre nell’opera simbolica, alcune tele, tra le più convenienti, rivelano a noi e all’autore il loro grado di parentela con le stele picene da Novilara o da Fano. In queste opere ultime la riduzione al bianco e nero di una vasta nomenclatura tonale già posseduta parla della gravità dei tempi e della solennità dell’impresa, mentre gli elementi dal fondo dell’inconscio atavico a determinare un conflitto di contrari e a suscitare significati, istintivamente procedono come quel ciclo metamorfico del linguaggio, che, nel nostro passato più remoto, traeva il cuneiforme dallo sciumero, dallo sciumero l’alef.

Un elemento costante, determinato da una somma di segni, ripetuto ostinatamente fino a significare, è a mio avviso il raggiungimento più alto nell’opera di Capogrossi, che avendo iniziata la sua rivolta su piede cézanniano, passo quasi inevitabile per un pittore tonale, ha rapidamente esplorato fonti genericamente mediterranee di gusto minoico cretese, per potere, tramite giochi di numeri a stampiglio, pervenire l’intuizione di un elemento che ha il fascino della prima immagine “scritta” del bue, dell’alef, dell’alfa, dell’A. in modo elementare e in ordinamenti complessi, evocativi di fasti, tragedie, rituali, l’elemento intuito da Capogrossi esprime dal profondo dell’inconscio collettivo gli archetipi con la forza corale dell’attuale primordio.

Così pervenuto dallo stadio atipico al tipico, un uomo nato nell’Italia Centrale, può rivelarsi con la voce della specie, così può infine assolvere la sua funzione sociale indicando a Roma e ai Romani, quanto sarà vano il lottare i Piceni e il soggiogare gli Umbri e gli Etruschi.

Così fa il subconscio atavico dell’uomo che ha da passare entro un seme solo e per un canale solo, da moltitudine rastremandosi fino a quel punto per ritornare moltitudine, come nel nostro mestiere la forma delle forme che diventano a un punto una forma sola per potersi nuovamente distinguere nelle loro sostanze e aspetti. 

Vediamo un po’ se a buttare un pugno di lenticchie (col permesso di Mino) nel pollaio, si riuscisse a distinguere (col permesso di Guzzi) le galline astratte dai pulcini concreti, senza poi meravigliarsi tanto se a questi ultimi infine dovesse toccare il piatto della primogenitura.

L’occasione di una mostra di tempere del pittore Sanfilippo all’ “age d’or” si presta a questo scopo e meglio sarebbe se di Sanfilippo fosse dato vedere una mostra retrospettiva che renderebbe noto ad altri oltre che a noi come i cosiddetti “giovani astrattisti romani” sieno un fatto più adulto di quel che non appaia. Se agli ottusi Commissari delle più antiche esposizioni mai venisse in mente di organizzare, per esempio, una personale di Mino Guerrini, malgrado loro e con stupore ne vedrebbero scaturire la fisionomia di un eccellente pittore.

D’altra parte l’anacronismo della situazione romana consiste appunto in questo che mentre questa città può vantare il gruppo più nutrito e solidale di pittori innovatori non ha direttori di gallerie o mercanti capaci di adeguarsi alle nuove esigenze e alla fecondità di questo ambiente creativo. Un pittore di primo piano come Turcato ha potuto esporre al “secolo” da solo e non più in gruppo non prima del ‘50. In genere le migliori gallerie che volessero fare uno strappo alla regola non andrebbero più lontano di una ospitalità di gruppo. Ma torniamo a Sanfilippo e al piatto di lenticchie.

Sanfilippo è un pittore singolare e nella sua semplicità molto complesso. Non potrà bastare il gruppo di tempere esposto all’ “age d’or” a mettere in evidenza il suo valore. Se locali più vasti lo avessero consentito e opere di Sanfilippo dal ‘46 a oggi fossero state esposte, ci saremmo domandati, come in altri casi, dove e come i giovani astrattisti romani avessero attinto idee così chiare: quando ancora non erano apparsi ad aprire loro le nuove strade teorici tipo Ballocco, ne tanti vasi erano stati portati a Samo e tante nottole ad Atene.

Sanfilippo si è orientato verso un ordinamento astratto della sua pittura al tempo di “Forma 1” e questo nuovo intendimento della pittura risale alla stretta collaborazione di Turcato Consagra, D’Orazio e Guerrini, Perilli e Accardi e altri, non estranea come si sa la figura di Guttuso da questa vicenda.

Tutto questo accadeva a Roma quattro anni prima che a Firenze uscisse il fondamentale manifesto dell’astrattismo agli occhi nostri piuttosto ingenuo che fondamentale e quattro anni prima che in Francia si prendesse alla lettera il movimento “Origine” 1950 nel senso strettamente etimologico della sua denominazione. A scanso di equivoci non mi passa per la mente una valutazione dei pittori sulla base della cronologia, né da queste considerazioni la stima per un Capogrossi o un Burri uscirebbe in nessun modo diminuita, ma vorrei consigliare ai colleghi delle nostre tendenze di convogliare tutti i loro impulsi in favore della poetica nuova che vanno insieme, non da soli, elaborando.

E’ vano perdersi nelle inutili querele sollevate l’anno scorso dallo stimatissimo gruppo fiorentino come apertamente va detto ai teorici del gruppo “Origine” che meglio loro sarebbe convenuto il chiamarsi altrimenti e il lasciare il bandolo della matassa dell’originario in mani che fossero possibilmente meno goffe e meno improvvisate.

La pittura moderna appare così lontana da quel che per pittura si intendeva fino agli ultimi decenni del secolo decimonono per essere stata determinata nelle sue apparenze da un mutato intendimento delle dimensioni; una nuova coscienza del tempo, espressa dal mutevole alternarsi di un tempo pittorico e di uno spazio pittorico, nei loro significati e nelle loro funzioni, ha restituito alla superficie dell’opera pittorica le proprietà indispensabili al documento civile e al messaggio ideologico.

Nei primi decenni di questo secolo, varii settori della scienza moderna, per quanto chiusi se non a pochi iniziati, sembrano aver influito sulle maggiori correnti pittoriche, e se non si fossero verificati rapporti di reciproca influenza, affinità di sentimenti e analogie di problemi avrebbero potuto essere avvertite nei diversi campi della scienza e dell’arte.

Infatti, nell’ambito degli stessi decenni, si ragiona di geometria non euclidea e di cubismo analitico e, quando la proiettiva si rinnova nella attuazione poliedrica della quarta dimensione, intendimenti affini agli argomenti dell’iperspazio e delle dimensioni enne pervadono l’opera di Braque e di Gris, di Duchamp e di Picasso. Il compenetrarsi dei volumi e dello spazio (idea dominante la estetica cubista del periodo orfico) potrebbe allora venire commentato dallo spazio interno di un ipercubo perché ne descriva la meccanica e ne spieghi le funzioni.

La pittura moderna ha inoltre consapevolmente attinto alle fonti della nuova psicologia, traendo dalle scuole psicoanalitiche di Freud e di Jung idee e ispirazioni senza fine; né il surrealismo avrebbe potuto descrivere la sua grande parabola se non avesse appunto inteso esprimere, nell’ambito delle tre dimensioni convenzionali, gli oscuri sensi dello spazio-tempo, tramite i moduli mnemonici che governano lo spazio della psiche.

Nessuno sa della psiche se non il perimetro di un impenetrabile labirinto ove, tuttavia, i processi associativi sondano e traggono, da una illimitata congerie, argomenti, vocaboli, forme, sensazioni, al fine di comunicare e esprimere.

Nessuno, però, più dei moderni ha investigato lo spessore di quei sedimenti che occultano, in semi sparsi, la memoria della storia dell’uomo.

I moderni, da Cézanne, a Mondrian, da Picasso a Klee, hanno in quella congerie gettato per primi come sonda i differenziati processi dell’automatismo analitico; né si può negare che abbiano conseguito meravigliosi risultati, se hanno potuto strappare alla oscurità dei labirinti psichici, luminosi sensi, dai quali ogni uomo che li intenda sarà accresciuto.

La pittura a noi contemporanea, sia quella da noi determinata in parte, sia quella da noi relativamente contrastata, proviene dalla grande avventura orfica della pittura moderna; da questa proviene, da questa tuttavia si distingue, se è pervenuta, al di qua degli orrori della guerra, a imporre, alla seconda metà del secolo ventesimo, una crisi morale che solo in parte affiora, e nei suoi aspetti più arcadici, in quei dibattiti che la critica oziosamente usa porre sotto le due etichette dell’astrattismo e del realismo.

Non si potranno abbordare le ragioni di tale crisi morale, non se ne potranno esprimere i contenuti e i significati, fintanto che le maggiori istituzioni e le scuole critiche più responsabili non avranno abbandonato il costume di un settarismo tanto approssimativo quanto tragico. Per ora, in nome dell’astrattismo, sono stati commessi errori senza fine, celebrando l’epigonismo, ignorando deliberatamente le fonti e la realtà dei fatti, allontanando, in nome di un monopolio settario, il pubblico, e molti di noi, dalle maggiori manifestazioni. In nome dell’astrattismo, il mercantilismo attuale è giunto a misurare il valore dell’opera pittorica in punti o perfino a valutare il significato di un pittore sulla base di tabelle speculative rapportate (tragico a dirsi, ma vero) alla grevità del suo apparire sulla scena umana.

In nome del realismo, per ora, sì sono commessi errori di meno grave portata, anche perché la critica realista, per quanto aprioristica, non si è legata, almeno per ora, al mercantilismo speculativo. In nome del realismo, tuttavia, si tenta sistematicamente di ostacolare, boicottare, svalutare, ricorrendo ai vieti metodi delle congiure del silenzio quanto di nuovo si inventi nella orbita tecnica e in quella strumentale della pittura di ricerca.

Le pressioni del mondo esterno sarebbero quanto mai sfavorevoli al divenire di un artista se tali fossero le corna del dilemma e mera pressione esterna appare la scelta che si pone tra astratto o figurativo, come se l’apparire della immagine si ponesse a noi moderni nei termini non anacronistici ai tempi di Spinello Aretino o di Domenico Ghirlandaio.

Allora si disegnava una sinopia e su quella si procedeva con uno strato leggiero di colletta e con le terre e i pennelli si eseguiva un affresco. Dalla sinopia in poi l’immagine era preconcetta, e prevedibile il senso dell’opera dallo spolvero al giorno della consegna.

Ma nel nostro tempo è avvenuta l’inversione del moto creativo, nella cronologia stessa dei momenti nei processi tecnici, e l’immagine può risorgere dall’oblio, sia essa individuale o ancestrale andando per intenderci, a ritroso, come se Spinello fosse andato dal colore alla sinopia. Non è moderno, in questo senso, resistere alle tentazioni come S. Antonio, e negare a priori il passo a una “ballerina” su una tela chiamata futilmente superficie numero trecentotrentatrè, perché tale superficie è stata a priori consacrata a un “segno”. Per ragioni analoghe, sarà inutile chiamare a gran voce gli spiriti dei licei artistici se tali spiriti dentro non vanno dettando, e dunque noi non li potremo significare.

Solo se due fossero i campi, due gli aspetti, due le possibili soluzioni, per quanto andiamo ragionando sarebbe auspicabile, come propone Corrado Maltese, una dialettica aperta tra l’astrattismo e il realismo. Ma un grande pittore nel mondo moderno, deve già da solo accogliere nell’orbita della sua creatività una dialettica ben più complessa, lasciando la propria funzione maturare nel magma delle contraddizioni interne, a suo rischio e a suo danno, se vorrà stupire prima se stesso e poi gli altri: e potrà, nel campo vivo della pittura, servire prima agli altri, e poi, semmai, a se stesso, a questo fine svincolandosi dal giogo mercantile e da similari pastoie.