Il pittore senza contratto

(da: «L’Europeo», anno XXI, n. 7, Roma, 14 febbraio 1965)

L’Europeo - Si leggono da ogni parte, negli ultimi tempi, dichiarazioni perentorie attribuite a lei, Corrado Cagli. Eccone tre. Prima: non è vero che la pittura è in crisi. Seconda: è la critica che è in crisi. Terza: anche la letteratura, oggigiorno, corre dietro alla pittura, Moravia segue Vedova, Calvin o segue Fontana, Ungaretti segue Mirko, Sanguinetti segue Burri e Gadda segue lei, Cagli. Conferma?
Cagli - Rispondono subito alla terza dichiarazione che mi si attribuisce: non ho mai detto né pensato accostamenti di nomi di questo genere, né so a chi attribuire questa invenzione superficiale quanto malevola...

Posso aver detto, semmai, ed è un mio profondo convincimento, che i valori semantici e filologici della pittura sono molto più antichi di quelli della letteratura: i primi popoli innanzitutto hanno «segnato» e poi «scritto»; la scrittura, infatti deriva dal segno. Sulla prima dichiarazione: la crisi della pittura, come lei dice, sono sempre, stato perentorio non c’è crisi: non c’è mai stata, o altrimenti dovremmo convenire che c’è sempre stata. La pittura è in continua evoluzione o metamorfosi: se una crisi c’è, è una crisi che sfiora la superficie della sua vitalità profonda.

L’Europeo - Non ha risposto alla domanda sui critici!

Cagli - I critici invece sono davvero in crisi: nessuno più li capisce, mentre la loro funzione sarebbe di rendere elementare quel che è complesso. L’Europeo - Erano migliori quando lei era più giovane? Cagli - Erano ancora più scadenti, ma non portavano, come quelle di oggi, le penne del pavone. I nostri critici, più preoccupati delle posizioni di potere che dei valori dello spirito, hanno immaginazione sibillina e memoria labile. Quando un gigante muore provvedono turbe di pigmei ad occultarne il cadavere: poi segue la congiura del silenzio.

L’Europeo - Qual è, secondo lei, il motivo fondamentale di questo stato di cose?

Cagli - Oggi non esiste un’estetica, chi segue la filosofia lo sa. Questa crisi che investe la filosofia costringe la critica ad un’alternativa tra l’immobilismo e il trasformismo. L’Europeo - Mentre la pittura, ha affermato lei, non è in crisi. Perché? Cagli - Perché in pittura ogni esperienza è possibile per una sua insita vitalità. A limitarne il corso non ci sono più pregiudizi.

L’Europeo - Proprio nessuno?

Cagli - Sì, paradossalmente pregiudizi ce ne sono ancora: Afro e Vedova, per esempio, non fanno più figure umane o oggetti e pare quasi agiscano in obbedienza a un fioretto.

L’Europeo - Lei un giorno disse che Modigliani «è un pittore di terzo ordine». Il boom di Modigliani è quindi merito esclusivo di critici legati alle mode, per lei?

Cagli - Certamente. Modigliani è un fenomeno mercantile. Ha male inteso la pittura senese; e quando a Parigi si affermava il cubismo Modigliani era un pittore marginale. Oggi invece si assiste a questo fenomeno: opere di Modigliani valgono cento milioni mentre un ’opera metafisica di De Chirico ne vale quindici. Questo è un rovesciamento di valori che determina una quotazione iniqua. È altrettanto iniquo che un disegno di Picasso si valuti a tre milioni e appena mezzo milione un disegno di Morandi. La superiorità della scuola francese si afferma, appunto, in campo mercantile.

L’Europeo - Già: Roma davanti a Parigi, Roma davanti a New York.

Cagli - Anche questa è una delle tante frasi che mi hanno abusivamente attribuito. Avrò parlato contro le centralizzazioni e avrò indicato in Roma, Parigi e New York tre focolai attivi della pittura attuale, ma avrei anche potuto invertire l’ordine dei nomi: invece mi hanno attribuito la graduatoria come se avessi fatto una dichiarazione sportiva. Comunque porrei sempre Parigi come terza, oramai, se è vero che siamo nel 1965.

L’Europeo - Sostituiamo pure la parola «Roma» con la definizione «pittura italiana contemporanea». Pare che lei le attribuisca un grande ruolo.

Cagli - Esatto. È in errore chi non riconosce all’Italia un apporto sostanziale all’affermarsi della pittura moderna, per non parlare, poi, della sua grande scultura. Troppo spesso da noi si dimentica che la pittura metafisica è nata a Ferrara ad opera di De Chirico e di Carrà, e che il surrealismo trae le sue origini dalla pittura metafisica italiana. Le vane diatribe su tutte queste questioni sono possibili perché noi manchiamo, ripeto, di una critica che si possa chiamare tale.

L’Europeo - E la fortuna di Cagli, allora, è merito esclusivo di Cagli?

Cagli - Debiti ne ho infiniti, da Bardi a Marchiori, da Russoli a Trombadori, a De Grada, ma io non lego la mia fortuna ai critici. Se lei si divertisse ad andare a vedere quello che hanno scritto di me i critici ufficiali, troverebbe ben poco. Da qualche tempo invece i critici giovani si occupano della mia pittura: Crispolti, Tadini, Migliorini, Busignani e tanti altri. I poeti e i letterati, al contrario, si son sempre occupati del mio lavoro: da Bontempelli a Palazzeschi, da Carrieri a Vigorelli. Alla congiura del silenzio hanno largamente collaborato i Brandi, gli Argan, i maggiori critici stranieri, americani e francesi, i quali però mi conoscono benissimo.

L’Europeo - Ci tiene a dichiarare che non ha mercanti alle spalle?

Cagli - Certo: affido le mie opere alle gallerie di volta in volta. Non ho mai firmato contratti e non mi voglio precludere nessuna esperienza. Sono un pittore analitico, di ricerca. L’Europeo - Lei infatti passa per uno sperimentatore. Qual è la natura di questo suo sperimentare? Cagli - Non è difficile accorgersi come io appartenga alla tradizione di Klee piuttosto che a quella di Picasso. Klee è volto a un sondaggio in profondità anziché ad una estroversione in superficie.

L’Europeo - Nel 1959 sulla rivista Ulisse, lei scrisse: «Nessuno sa della psiche se non il perimetro di un impenetrabile labirinto dove, tuttavia, i processi associativi sondano e traggono, da una illimitata congerie, argomenti, vocaboli, forme, sensazioni, al fine di comunicare ed esprimere. Nessuno, però, più dei moderni, ha investigato lo spessore di quei sedimenti che occultano, in semi sparsi, le memorie della storia dell’uomo. I moderni, da Cézanne a Mondrian, da Picasso a Klee, hanno in questa congerie gettato per primi come sonda i differenziati processi dell’automatismo analitico». È fondamentalmente, secondo lei, il ruolo della psicologia nell’arte contemporanea?

Cagli - La pittura moderna ha attinto consapevolmente alle fonti della nuova psicologia, traendo dalle scuole psicanalitiche di Freud e di Jung idee e aspirazioni senza fine: né il surrealismo avrebbe potuto descrivere la sua grande parabola se non avesse appunto inteso esprimere, nell’ambito delle tre dimensioni convenzionali, gli oscuri sensi dello spazio-tempo, tramite i moduli mnemonici che governano lo spazio della psiche.

L’Europeo - Anche il ruolo delle scienze pare piuttosto considerevole, almeno a guardare i risultati della sua produzione artistica, non è così?

Cagli - Nei primi decenni di questo secolo vari settori della scienza moderna, per quanto chiusi a pochi iniziati, sembrano aver influito sulle maggiori correnti pittoriche. Si ragiona infatti di geometria non euclidea e di cubismo analitico e, quando la proiettiva si rinnova nella attuazione poliedrica della quarta dimensione, intendimenti affini agli argomenti dell’iperspazio e delle dimensioni enne pervadono l’opera di Braque e di Duchamp e di Picasso. Il compenetrarsi dei volumi e dello spazio è l’idea dominante dell’estetica cubista del periodo orfico.

L’Europeo - Secondo una sua recente affermazione, da lei sottoscritta, «la pittura contemporanea proviene dalla grande avventura orfica».

Cagli - Sì, da quella proviene e da quella tuttavia si distingue, se è pervenuta, al di là degli orrori della guerra, a imporre, alla seconda metà del secolo ventesimo, una crisi morale che solo in parte affiora, e nei suoi aspetti più arcadici, in quei dibattiti che la critica oziosamente ha usato porre sotto le due etichette dell’astrattismo e del realismo.

L’Europeo - Quali errori sono stati commessi in nome dell’astrattismo?

Cagli - In nome dell’astrattismo si sono commessi errori senza fine, celebrando l’epigonismo, ignorando deliberatamente le fonti e la realtà dei fatti, allontanando in nome di un monopolio settario il pubblico e molti di noi dalle maggiori manifestazioni.

L’Europeo - E in nome del realismo, quali errori?

Cagli - In nome del realismo, per ora, si sono commessi errori forse di meno grave portata, anche perché la critica realista, per quanto aprioristica, è poco legata, almeno per ora, al mercantilismo speculativo. In nome del realismo, tuttavia, si tenta ostinatamente di ostacolare, boicottare, svalutare quanto di nuovo si inventa nell’orbita tecnica e in quella strumentale della pittura di ricerca.

L’Europeo - Che cosa pensa della polemica astrattismo-figurativismo?

Cagli - Solo se due fossero i campi, due gli aspetti, due le possibili soluzioni, sarebbe auspicabile una dialettica tra astrattismo e realismo. Ma un grande pittore nel mondo moderno deve già da solo accogliere nell’orbita della sua creatività una dialettica ben più complessa, lasciando maturare la propria funzione nel magma delle contraddizioni interne, a suo rischio e suo danno, se vorrà stupire prima se stesso e poi gli altri: e potrà, nel campo vivo della pittura, servire prima agli altri e poi, semmai, a se stesso, svincolandosi quindi dal giogo mercantile e da simili pastoie.

L’Europeo - Leggo su una rivista del 1933, Quadrante, diretta da Bontempelli e Bardi: «Come l’arte ha i suoi generi (lirica, epica, idillica), così la pittorica ha i suoi, che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l’astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima), si riscatta l’astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell’arte». Era lei, Cagli, che scriveva così. Più di trent’anni fa, quindi, lei aveva già intuito la futilità del dilemma astrattismo-figurativismo. Ma quell’anno, parlo del 1933, nella storia artistica di Corrado Cagli, è importante per un ’altra polemica, quella che va sotto la definizione di Muri ai pittori.

Cagli - Muri ai pittori s’intitolava appunto un mio articolo pubblicato su Quadrante. Intendevo reagire all’incubo della «grandezza», alla retorica dei fasti imperiali e guerrieri, nei termini del «mito», come evocazione di un mondo simbolico e come richiamo alle origini. Per enfasi giovanile arrivavo a sostenere che quanto si faceva in pittura al di fuori della pittura murale era fatica minore. La dichiarazione corrispondeva ad una esigenza unitaria e di destinazione dell’opera d’arte: i muri richiesti dovevano essere infatti sottratti all’imperialismo architettonico di allora.

L’Europeo - Nella primavera di quello stesso anno Sironi la chiamò a Milano per dipingere i muri di Palazzo Bernocchi.

Cagli - Effettivamente quella primavera resta viva nella mia memoria: sembrava proprio che l’utopia della pittura murale dovesse trasformarsi in realtà. Vaste pareti di Palazzo Bernocchi erano state assegnate ai pittori invitati a collaborare a quella Triennale, da Achille Funi a Giorgio de Chirico, da Massimo Campigli a Mario Sironi, da Carlo Carrà a me. Ma, come nella vicenda comicogrottesca vissuta da Alee Guinness nel film La bocca della verità, i grandi muri dipinti al Parco furono, due anni dopo, se non addirittura demoliti, totalmente cancellati.

L’Europeo - Tre anni dopo, a ventisei anni, per la Triennale del 1936, lei eseguì la Battaglia di San Martino, un dipinto a tempera encaustica su tavola, che misura cinque metri e mezzo di altezza per sei e mezzo di base. Questo dipinto si impone ancora oggi, dopo un quarto di secolo, come uno dei punti massimi di arrivo della pittura italiana di allora. Come fu accolto dalla critica ufficiale?

Cagli - Male; non combaciava con la retorica di allora. Le autorità costituite vedevano un pericolo nella ripresa di temi dell’Ottocento, che potevano alimentare il rifiorire di certo pensiero risorgimentale. Noi giovani di fronda di allora consideravamo un «testo» l’epilogo della Storia di Europa di Benedetto Croce.

L’Europeo - Ma la Battaglia di San Martino rappresenta anche un altro fatto, costituisce cioè uno dei massimi risultati della riscoperta degli antichi in atto durante quegli anni. Lei proseguiva la nuova lettura dei testi italiani del Trecento e del Quatttrocento, che era già iniziata con la metafisica di De Chirico ed era continuata, su un piano meno enigmatico, col neotradizionalismo dei maestri italiani attorno al 1920. Scriveva il Castelfranco: «Cagli ha riscoperto la metafisica prospettica del primo Rinascimento». E Guttuso: «Cagli ha saccheggiato freneticamente le tavole della nostra tradizione da Piero della Francesca a Paolo Uccello ad Andrea del Castagno». Che valore aveva per lei la tradizione? Che valore ha?

Cagli - Per me ha un valore fondamentale. Può darsi che prima della guerra come lei giustamente diceva sia andato a ricercarla a ritroso nel tempo, come si conviene a un giovane, ma non fermandomi solamente ai sacri testi del primo Rinascimento italiano; ho voluto risalire alle mie fonti: per affinità elettiva alla pittura compendiaria romana. Nel dopoguerra l’intendimento è mutato con l’andare degli anni e con la nuova nozione che la tradizione, e così la cultura, è in noi come la noce nel suo mallo. Allora mi sono rivolto ai metodi analitici per rivelare a me stesso la mia tradizione. Oggi quanto c’è di più moderno lo è in quanto remoto o estremamente antico.

L’Europeo - Nel ’38, proprio quando stava raccogliendo i maggiori consensi tra i giovani, fu costretto all’esilio, perché ebreo. Non poteva avere vita facile uno che, in un momento nel quale in Europa, in nome della ragione, si condannava l’arte degenerata, andava scrivendo frasi di questo genere: «L’irrazionale è la sola cosa che ancora rimanga alla povera umanità contemporanea». Dopo un breve tempo trascorso in Francia, lei raggiunse l’America. È stata importante l’esperienza americana per la sua evoluzione artistica?

Cagli - Non credo. Non ho avuto il tempo di seguire quel che stava succedendo in quegli anni a New York. Sapevo che molti europei erano arrivati ma io non c’ero. Nel ’40, ero già arruolato nell’esercito americano. Dal ’40 al ’45 ho partecipato a cinque campagne in un reparto di artiglieria, dallo sbarco in Normandia fino alle porte di Lipsia. In quel periodo non dipinsi, ho fatto solo a Buchenwald qualche disegno.

L’Europeo - I suoi disegni su Buchenwald e sull’Europa 1945 sono da tempo (insieme ai disegni Gott mit uns di Guttuso e a quelli della Resistenza di Birolli) una testimonianza oculare veramente straordinaria. Ma come trovò l’Italia, quando vi arrivò?

Cagli - Finita la guerra, feci ritorno in America per congedarmi. Passai un periodo molto intenso di lavoro a New York ma sentivo che le mie radici non erano là. Sono tornato in Italia definitivamente nel ’48. Ripresi gli antichi sodalizi, Mirko, Guttuso, Savinio, Bontempelli e altri. Ma con molti, che pure erano amici miei prima della guerra, non sono più riuscito a riprendere il discorso.

L’Europeo - Lei passa per un artista difficile e intellettuale.

Cagli - Non so cosa voglia dire. Piero della Francesca non era intellettuale? Tutti i grandi pittori sono stati intellettuali. Non lo era forse un Michelangelo? per non nominare Leonardo da Vinci. E Picasso, e Max Ernst, non sono intellettuali?

L’Europeo - I collezionisti che vogliono speculare sulle sue opere non sanno come classificarle.

Cagli - Può darsi. E mi auguro di riuscire ad evitare sempre le etichette. Non mi sento farfalla da entomologhi.

L’Europeo - Come giudica la condizione del pittore, in Italia?

Cagli - È una condizione privilegiata.

Intervista: "Vie Nuove"

(da: «Vie Nuove», anno XXII, n. 31, Roma, 3 agosto 1965)

Vie nuove - In questi ultimi tempi si denuncia sempre più frequentemente, da certe parti, una crisi in atto nell’arte. Lei cosa pensa in proposito?

Cagli - Penso a proposito di che? Se per «crisi in atto nell’arte» vi riferite a quella denunciata da un settore della critica che, nelle riunioni di San Marino, ha presagito la prossima fine dell’arte, penso che le prefiche siano prive di fondamento. Non importa che certi critici siano autorevoli se, chiusi in una loro piccola Babele, confondono se stessi e gli altri, incapaci, gli uni e gli altri ormai, di distinguere una pietra di Brancusi da un uovo di gallina...

Se è a questo tipo di crisi che si allude, si parli di crisi della critica e non dell’arte, e che la critica sia in crisi è un fatto che si va verificando da tempo senza tuttavia travolgere nel suo ingorgo se non alcuni epigoni e personaggi minori. Ma i migliori critici giovani sono fuori da quel gorgo e perché occuparsi allora di un fenomeno che non può che gradualmente esaurirsi?

L’arte si è sempre giovata di tutte le crisi e un solo stato di crisi l’arte deve veramente temere: la guerra. Si pensi alla grande pittura europea dei primi anni del secolo e a come tutto sia andato in malora all’inizio della guerra ’14-’18.

Vie nuove - Quali sono, a suo avviso, gli elementi di novità che caratterizzano l’attuale situazione artistica?

Cagli - Elementi di novità, pochi, se non una conquistata spregiudicatezza dei mezzi materiali d’impiego, dei nuovi strumenti espressivi, e il rapido maturare di numerose personalità, divergenti e contrastanti che portano un grande contributo dialettico alla scuola italiana. Questo per quanto riguarda i pittori e gli scultori ma, per quanto riguarda i critici, guardo alla critica giovane (ai suoi elementi più attivi, ai suoi personaggi di maggiore rilievo) come a una giovane scuola, orfana e orfica, che, al di là delle macerie lasciate dagli Ojetti, dai Venturi e dai loro seguaci, svolge, finalmente, un lavoro intensamente critico e creativo, moralmente impegnato.

Vie nuove - Qual è l’indirizzo della sua produzione attuale e come pensa che vada collocata nell’ambito delle ricerche odierne?

Cagli - All’indirizzo della mia produzione attuale manca, come è mia abitudine, il numero di codice, quindi questa informazione arriverà con ritardo. Come il lavoro che vado facendo andrà collocato nell’ambito delle ricerche odierne non è un problema per me, ma potrà esserlo, eventualmente, per amici, critici e poeti.

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