Pellegrino, 1939
Matita seppia su carta, 19 x 27 cm
Firmato in basso a destra: “Cagli”
Roma, collezione privata
Grotta, antro o spazio di solitudine è quello in cui un giovane, nel fiore degli anni siede e fissa con gli occhi interiori le orbite vuote del teschio. Avverte tutto il peso del monito di quell’assenza, che lo ammonisce d’essere stata un tempo vestita di carne sensibile e colma di pensieri, prima di giacere compagna dei sassi, che sono le ossa della terra dominata dalla vita effimera.
Il giovane ha sulle spalle il peso che lo accomuna alla sorte dell’umanità dolorosa. Al fianco gli giacciono il bastone del viaggio e le vesti, che sono evidenti spoglie caduche. La lunga e sottile croce (ricorda quella del San Giovannino di Leonardo) che reca sulle spalle e lo raccorda al teschio, lo conforta: per crucem ad lucem.
Il pellegrino, che ha anche abbandonato la piccola borsa in cui custodisce il denaro per il quotidiano sostentamento, sembra nel suo monologo rievocare la storia della redenzione, quella della croce, il più totalizzante dei simboli, nelle sue funzioni di sintesi e misura. In essa si congiungono il cielo e la terra, si mescolano il tempo e lo spazio; è il cordone ombelicale mai reciso dal cosmo, che è legato al centro originario.
La croce è la grande via di comunicazione. Il pellegrino, per non errare, mai si dovrebbe allontanare dalle sue liste. Il teschio, come nelle storie di Piero della Francesca, è quello di Adamo, nella cui bocca il figlio Set pose il seme d’acacia su consiglio dell’angelo. Quell’acacia, che non fa male e mai muore, divenne poi patibolo di Cristo.
Ai piedi della croce giace il teschio di Adamo e oltre gli spazi terreni quel simbolo di morte e resurrezione si prolunga in ascesa verso il cielo degli eletti. Dalle miserie della carne “la gente con ingegno arte acquista”, come afferma Dante. Cagli, riflettendo sulla croce del “risorgi e vinci”, osò affermare con sublime certezza: “Cristo nostra pace”.
( Cagli nel centenario della nascita, a cura di A. Calabrese. )